L’invidia. Da sentimento a struttura di personalità.

da Antonio Ferrara
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Pubblicato in: Quaderni di Gestalt, n.26/29, 1998/99.

 

“Nei tipi invidiosi i modelli cognitivi si sono organizzati intorno ad un pensiero del tipo: se soffro, otterrò quello che voglio”.

 

I tipi invidiosi subiscono il mondo esterno e manifestano evidenti meccanismi introiettivi. “Perché lui si e io no?”.

I modelli cognitivi si sono organizzati intorno ad un pensiero del tipo “Se soffro, otterrò quello che voglio”.

 

Introduzione

Il mio contributo ha come tema l’investigazione di uno dei sentimenti che produce maggiore sofferenza e specifiche forme di patologia: l’invidia.

L’ottica è di analizzare i fattori che portano un sentimento e quindi uno stato emozionale, ad organizzarsi sotto forma di una vera e propria struttura di personalità, assumendo un modello di adattamento che ha specifiche connotazioni e che, per la sua peculiarità, si differenzia da altri modelli e conseguenti organizzazioni psicologiche. La mia attenzione si è rivolta alle strutture fisse della personalità e quindi alle configurazioni interne sottese al comportamento visibile e osservabile.

Ritengo infatti che la terapia di processo, tradizionale punto di riferimento della Gestalt, acquisti maggiore pregnanza quando viene integrata con la comprensione dei contenuti. Se è pur vero che trattando il processo si incide sulla struttura, è altrettanto vero che il modello processuale non è di per sé esaustivo. La comprensione della propria organizzazione interna e in particolare la decodificazione degli schemi cognitivi, ha un’importante influenza sulla qualità della terapia.

Ho anche sperimentato attraverso il lavoro clinico che conoscere le mappe cognitive connesse agli stati emozionali e quindi i pensieri e le idee alle quali si ispira il comportamento, offre al paziente, oltre che al terapeuta, uno strumento rilevante per dare significato alle proprie azioni. Il paziente comprende che sono il risultato di una logica unitaria nella quale la storia personale e le interpretazioni che il bambino ha dato delle proprie esperienze, diventano un insieme coerente e una linea guida di grande sostegno nel corso della terapia. Inoltre, rendersi conto che la sua visione del mondo è stata filtrata e distorta non solo da uno stato di vulnerabilità e dipendenza, ma anche da un carattere originario che ha influenzato le scelte, e conoscere la logica sottesa ai propri adattamenti, aiuta a dare significato al comportamento attuale. Il paziente può vedere chiaramente che la sua vita è condizionata da uno schema di comprensione di se stesso e del mondo non più adeguato, basato com’è su nuclei cognitivi arcaici. I modelli ai quali si ispirano le mappe organizzative della personalità non sono tanti. Anzi, pur con le molteplici sfumature attraverso le quali si presentano, i nuclei costitutivi sono limitati a poche tipologie.

Un sentimento complesso

Ho scelto per questa occasione l’invidia, sentimento complesso e difficile da trattare, perché molto diffuso tra i nostri pazienti e alla base delle patologie ‘limite’. L’invidia è connessa ad uno stato di sofferenza ed ha forti componenti motivazionali e quindi emotive. Le emozioni, com’è noto, sono stati di eccitazione strettamente correlati al comportamento. Elementi caratteristici ne sono l’energia e la motivazione. Perls le considera la forza essenziale “che infonde energia a tutta la nostra azione” (Perls, 1977; ed. or. 1973). ‘Sono il linguaggio’ dell’organismo ed hanno una funzione essenziale: permettono di soddisfare i bisogni. Generalmente consideriamo emozioni di base la tristezza, la rabbia, la paura e la gioia. All’interno di queste categorie possiamo individuare altri stati emozionali, apparentemente poco differenziati. Ad esempio, mentre la paura provoca una reazione di fuga, le gradazioni più intense della stessa matrice emozionale, panico, terrore, orrore, provocano di solito un blocco dell’azione e si presentano con vissuti abbastanza diversificati. Anche l’invidia, sentimento che motiva fortemente il comportamento umano, può essere considerata un’emozione, sebbene presenti caratteristiche complesse dietro le quali a volte si perdono le tracce motivazionali e prendano spazio altri sentimenti che all’invidia sono strettamente collegati. Alcuni la considerano connessa all’area dell’ira e come per la paura può presentarsi in forme differenti, per grado di intensità e per le conseguenti reazioni di chi la sperimenta.

Le carenze alla base del sentimento

Nella cultura psicoanalitica, che maggiormente se ne è occupata, l’invidia è considerata un tratto del carattere. M. Klein, in particolare, la collega allo stadio orale e più specificamente alla fase dello svezzamento e alla nostalgia del primo cibo. Qualcosa di buono che non c’è più. Possiamo estendere il concetto e collegare lo stato di insoddisfazione non soltanto ad una perdita del contatto con il seno ed il buon latte materno, ma anche ad una condizione più generalizzata. C. Naranjo (1996) parla di uno stato ontologico, un sentimento primario che nasce con l’uomo stesso ed è legato ad un vissuto di carenza, non solo relativo ai fenomeni di separazione, ma anche ad una carenza originaria, ontica, che appartiene alla natura umana. Venendo al mondo il bambino contatta presto il suo limite. Non può fare tutto quello che vuole, né avere tutto ciò che desidera. Aspira ad una pienezza che è difficile realizzare. Mentre questa condizione per un verso produce sofferenza, per altri aspetti attiva energia che genera cambiamento, una vera e propria forza trasformatrice. Negli stati naturali chi è sazio diventa pigro, se ha ancora fame, se sente il vuoto, si muove e agisce. Nelle esasperazioni patologiche invece, da un lato c’è la rinuncia, il perdersi nella passività e nella depressione, e dall’altro il vivere nell’azione ossessiva di chi continuamente ‘fa’ coltivando l’illusione che in questo modo riempirà finalmente il suo vuoto.

Alla radice del sentimento di invidia ci sono dunque stati emozionali, connessi ai vissuto di carenza, che contengono motivazioni, attivano comportamenti e si dirigono verso oggetti di bisogno rispondendo a stimoli interni e ambientali. Si tratta di impulsi essenziali per la sopravvivenza e lo sviluppo, una forma primaria di aggressione dentale. Ne consegue che nelle sue manifestazioni originarie è un sentimento presente fin dalla prima infanzia, connesso com’è ad uno stato di necessità. Ha come caratteristica la propensione a vedere che l’altro possiede più cose ed è più soddisfatto, il che provoca un acuto desiderio di prendere da chi ha.

Questa attitudine rientra in una condizione naturale e produce la spinta all’azione. È associata ad una forza aggressiva che induce a dirigersi verso l’ambiente e a cercare in esso ciò che serve. L’altro ha quello che mi manca, la mamma ha il buon latte, ne ho bisogno, mi propendo verso il capezzolo per prenderne. La spinta a cercare fuori da sé rientra nella normalità evolutiva e permette di soddisfare le proprie esigenze. Il bambino prende dall’altro e primariamente dalla madre, il nutrimento fisico e affettivo. In seguito si rivolgerà all’ambiente più allargato. Il cercare fuori da sé, al di là delle deviazioni dovute a legami simbiotici o ad attaccamenti non risolti, è lo stesso impulso che, evolvendosi, in seguito darà spazio ad un sano rapporto individuo ambiente. Quando invece subentrano le frustrazioni e queste superano determinati limiti, vengono in primo piano le differenze, il ‘perché lui si e io no’, i vissuti di rabbia e di ingiustizia. Gli impulsi originari si strutturano in un sentimento pervaso di malevolenza verso l’altro, l’altro che possiede quanto al soggetto invidioso invece manca.

Diventa allora emozione inefficace, sovraccarica com’è di eccitazione mal diretta, per cui, nonostante possegga una forte carica motivazionale, paradossalmente non conduce alla meta. Attraverso una confusione cognitiva, l’oggetto sul quale fissa l’attenzione diventa l’altro che possiede e l’invidioso perde di vista le sue vere necessità. Il bisogno va sullo sfondo ed entra in primo piano la persona invidiata, colui che realmente o immaginariamente ha di più. Da qui scaturisce una carica di distruttività irrazionale che sostituisce l’originario bisogno di soddisfazione. Si producono in questo modo circuiti viziosi alla fine dei quali la persona continua a sentirsi inappagata e finisce con l’attivare comportamenti che danneggiano sé stessa o l’altro secondo che l’energia venga retroflessa o diretta con odio verso l’esterno.

Mancanza e bisogno d’amore

Il tutto si organizza intorno ad un complesso vissuto al centro dei quale emerge il bisogno d’amore. È proprio in termini d’amore che il bambino desidera di più. Vuole più amore, vogliamo più amore. Ma con questa parola evochiamo innumerevoli esperienze. Di fatto la carenza può manifestarsi su più livelli e riferirsi a tante differenziate necessità. È opinione comune che solo se c’è amore si può accudire con pienezza il piccolo nato. Ma dal punto di vista del bambino, che sa poco circa l’amore, così come noi adulti lo intendiamo, quello che conta è che vengano soddisfatti i suoi bisogni di  sopravvivenza, di relazione, di riconoscimento e di scambio affettivo. Infine formuliamo che ci vuole una madre piena d’amore per rispondere a tanta richiesta. Di qui il mito della madre perfetta, illusione compensatoria dell’insaziabile fame umana, di quel senso di vuoto ontologico che ci caratterizza.

Il territorio delle emozioni è molto articolato ed è utile stabilire delle differenze nei modi di viverle. Possono mantenere la loro motivazione originaria, oppure diventare sentimenti sostitutivi di altri che invece sarebbero più adeguati alle circostanze. Poiché per qualche ragione sono stati osteggiati, la persona ha imparato ad evitarli. La sostituzione di sentimenti naturali con altri maggiormente approvati dall’ambiente produce, com’è ovvio, una deviazione nel processo di contatto. I sentimenti sostitutivi diventano modelli emozionali stereotipati che si ripetono anche in maniera inconsapevole al fine di manipolare l’altro. Hanno perso la loro carica motivazionale e portano pertanto a mete parziali. Se ad esempio invece di chiedere in modo assertivo lo si fa lamentandosi o pretendendo, qualcosa a volte si ottiene ma in misura diversa da quella che ci si aspetta.

In altri casi l’emozione, pur se naturale, viene espressa in forma esagerata rispetto alle circostanze, finendo con il dare al comportamento una ‘coloritura’ che lo impronta in maniera costante. Diventa un modo di stare al mondo connotato da una specifica emozione, come nel caso di quelle persone che trasformano i naturali tratti aggressivi in una modalità ‘arrabbiata’ di proporsi che caratterizza in maniera compulsiva le loro relazioni. L’emozione acquisisce toni ‘appassionati’, un particolare attaccamento agli oggetti del bisogno, così forte che spinge ad esagerare l’impegno e le energie coinvolte, attitudine che contiene l’illusione del bambino, l’idea che ‘se lo fa di più’ otterrà finalmente il risultato.

 

Distorsioni ed esasperazioni

Per quanto riguarda l’invidia le spinte naturali si esasperano e si irrigidiscono. La persona continua a cercare fuori anche ciò che a volte già possiede, in un penoso e costante tentativo di avere dall’altro o attraverso l’altro quello di cui realmente o immaginariamente è carente.

I sentimenti si associano a formazioni cognitive, nuclei di idee e pensieri che, come già detto, vengono elaborati su interpretazioni distorte e generalizzate della realtà e questo in virtù del fatto che il bambino tende a mettere un filtro alle esperienze che vive. Il filtro, nel caso dell’invidia, si connota di vissuti di carenza, un vuoto originario che viene rinforzato da esperienze ambientali. Su queste basi il bambino costruisce la propria visione del mondo. Non sentendosi amato cerca delle spiegazioni alla propria condizione, si chiede il perché. Questo processo nelle prime fasi dell’esistenza avviene su basi corporee, è il corpo che vive direttamente gli stimoli e dà le risposte. Se non si riceve sufficiente calore, ci si irrigidisce nel freddo e in quella rigidità viene organizzato un sistema cognitivo primario, senza pensieri e senza parole.

Nel caso dell’invidia il bambino elabora delle specifiche convinzioni su sé stesso. Non viene amato perché non possiede qualità apprezzabili, anzi non vale nulla e per questo non conta per l’altro, fino a concepire di non essere degno di vivere. Su questa base crea degli schemi cognitivi attraverso i quali opera una lettura di sé stesso e del mondo che diventerà una vera e propria mappa dl riferimento.

La personalità si organizza intorno ad una struttura i cui elementi emozionali dominanti sono basati sull’invidia e gli schemi cognitivi connessi si coagulano intorno a profondi vissuti di svalutazione che provengono da esperienze arcaiche dalla quali il bambino deduce di non essere stato voluto, fino al punto di ritenere di non esserci per gli altri: ‘tu non esisti’, si dice nel dialogo interno. I sentimenti di carenza e le convinzioni che intorno ad essi si organizzano, producono un tipo di personalità perennemente insoddisfatta che permea la vita di sofferenza. Insoddisfazione e sofferenza diventeranno una linea guida per il vivere quotidiano.

Quindi, a partire da un vissuto originario di privazione, per successive elaborazioni, si struttura una forma di adattamento che finisce per irrigidirsi in meccanismi intrapsichici, ai quali corrispondo modalità comportamentali che diventano ripetitive e stereotipate. La mappa così costruita, con l’intento di cercare il maggior vantaggio con il minor rischio possibile, diventa uno specifico carattere che accompagnerà la persona durante la vita. Nelle fantasie sono presenti vissuti di abbandono, l’idea che la madre lo abbia ‘espulso’ piuttosto che partorito, e a volte di essere stato un bambino adottato. Per queste ragioni si convince che non sarà mai amato come un figlio vero. La relazione con l’invidioso può diventare davvero difficile, se consideriamo anche la sua radicata convinzione di essere diverso dagli altri e che pertanto nessuno lo potrà mai capire. Molto centrato sull’ ‘io’ ha meno contatto con il ‘tu’ e, capace di empatia, spesso esagera e vede la propria sofferenza nell’altro che sta male, stabilendo confusioni simbiotiche, rischio nel quale può incorrere anche il terapeuta che appartiene a questa tipologia. Può tendere a identificarsi nel paziente e, confluendo, perdere la distanza e il senso delle differenze.

Come paziente, a volte stabilisce transfert imponenti, reclama impegno e attenzione in modo così pressante che il terapeuta può sentirsi schiacciato dal peso delle richieste. D’altro canto i modelli cognitivi si sono organizzati intorno ad un pensiero del tipo ‘se soffro otterrò quello che voglio’, convinzione nata da una antica esperienza comune a tutti noi, basata sul fatto che se da piccoli abbiamo bisogno di mamma e lei non viene, è necessario piangere ancora più forte. Quella che è un’esperienza naturale, diretta alla sopravvivenza, si trasforma in rigido comportamento manipolativo che entra a far parte di una specifica organizzazione di personalità, la quale finisce per associare nella sua struttura caratteriale invidia a sofferenza.

Nelle sue modalità comportamentali l’invidioso si presenta con diverse ‘maschere’. A volte è persona timida e vergognosa che si atteggia a vittima e tende a lamentarsi. Assume comportamenti passivi cercando sostegno nell’altro, si emoziona e piange facilmente, si deprime davanti alla frustrazione. Altri reagiscono al proprio stato di carenza e si inventano una falsa autonomia, una forma grandiosa di autosufficienza compensatoria. Si impongono di fare da soli sottoponendosi a grandi sforzi e, attraverso un atteggiamento stoico, nascondono a se stessi i propri bisogni, non chiedono aiuto e rifiutano il sostegno. Ostentano sicurezza e la loro espressione è più dura e controllata. Altri ancora si ribellano al proprio stato e diventano reattivi. Più proiettati verso il mondo si propongono con modalità competitive e grande smania di affermazione, si fanno spazio in maniera aggressiva e reclamano accusando, in maniera pretenziosa, quanti appaiono poco disponibili a soddisfare i loro bisogni. Ciò che accomuna le diverse tipologie è il senso di una profonda, incolmabile carenza.

Nella storia di queste persone le relazioni oggettuali sono caratterizzate dalla presenza di un padre ‘bambino’ che si prende poche responsabilità rispetto all’educazione e alla crescita dei figli. È un padre spesso denigrato da una madre sofferente e ‘vittima’ che si sente sovraccaricata dal peso della famiglia, ha bisogno di protezione e paradossalmente, invertendo la simbiosi, la cerca proprio nel figlio, in maniera indiretta e manipolatoria. Quest’ultimo si assume un onere improbo, quello di prendersi cura della madre, a volte più raramente del padre, con l’illusione che se lei, la mamma, starà bene e sarà più felice anche lui otterrà più cure e più amore. Naturalmente le necessità del bambino sono poco soddisfatte ed è proprio il bisogno carente che prende la guida della personalità.

 

Alcuni casi esemplari

In generale i tipi invidiosi subiscono il mondo esterno e manifestano evidenti meccanismi introiettivi. I modelli genitoriali, i messaggi e gli stimoli da loro ricevuti, vengono incorporati e spesso restano nettamente separati tra loro. Non si conciliano all’interno ed è quindi difficile una successiva possibilità di integrazione.

Nell’esempio di una paziente sono presenti due polarità: la creativa pazzoide e la riflessiva depressa, come lei le definisce.  Entrambi sono modelli adottati a salvaguardia della propria sopravvivenza. Il primo corrisponde al padre, artista/pazzoide, e l’altro alla madre, riflessiva/depressa. Quando fa la ‘pazza’, per un bizzarro gioco di proiezioni, è proprio il padre che interviene a calmarla e viceversa accade con la madre, che la coccola quando è depressa, quella stessa madre della quale fin da bambina iniziò a prendersi cura. I genitori incorporati e in generale tutti i modelli introiettati si alternano nella sua coscienza e di volta in volta scompaiono sullo sfondo. Insieme non possono convivere. Portandosi dentro papà e mamma si impedisce di amare se stessa. “Sono un poco di questo e un poco di quello… è come se amassi me stessa attraverso gli altri”. Emerge chiaramente il divieto ad esserci, ad esistere. Le sembra di poter vivere solo attraverso gli altri e per maggior rassicurazione se li mette dentro, come parte di sé, con l’idea che in questo modo non li perderà. In altro momento afferma: “È come se avessi accumulato ricchezze, una cosa di uno, una cosa di un altro… di uno la dolcezza, di un altro la fantasia, di un altro ancora la forza… e così ho dentro tante ricchezze… ma non le so spendere e allora mi alterno tra l’essere superficiale o ricca, per le tante chiavi di lettura che ho”. In realtà non fa mai veramente esperienza perché la dolcezza e la forza che mutua dall’esterno, non vengono integrate, restano corpi estranei, introietti che utilizza come strumenti occasionali. Di fatto le sue sono una finta dolcezza e una forza immaginaria e perciò può dire: “ln realtà io sembro generosa, ma non lo sono”. Imita quello che ha visto fare ma non le appartiene. Dietro si nasconde lo stato di carenza, ancora una volta il bisogno d’amore. Poiché non riceve un vero nutrimento amoroso, attraverso un meccanismo di adattamento cognitivo con il quale evita il dolore prodotto dal vuoto d’affetto, crea un inganno, immagina di riempirsi possedendo gli altri, tenendoseli dentro attraverso le loro caratteristiche. Suppone che diventino suoi, parte di sé, così non può perderli. A causa di questa attitudine i legami, anche quando diventano insopportabili, si trascinano nel tempo con grande difficoltà di risoluzione. La separazione viene vissuta come uno strappo intollerabile che porta disperazione. Legata al passato assume male le responsabilità evitando di rispondere agli stimoli attuali. Vive in una perenne confusione, sempre con diverse alternative possibili e con tante contraddizioni, per cui alla fine non sceglie, si dibatte in una perenne impasse.

A rinforzare l’immobilità affettiva, non dell’azione fisica nella quale invece può spendere molta energia, e il persistere dello stato di insoddisfazione, intervengono meccanismi retroflessivi.

L’energia non spesa ritorna a sé e produce sintomi o stati emozionali determinati dalla rinuncia a conseguire la meta. A volte l’energia è soltanto trattenuta e anche se non si producono sintomi permane un’inerzia di fondo che caratterizza questa personalità. Neira si rifugia in un mondo interiore nel quale nessuno può entrare. L’energia attiva si trasforma in pensieri, i bisogni vengono idealizzati. Crea un mondo fantastico e vive nell’immaginazione, sogni che non può realizzare nella vita quotidiana, un rifugio nel quale sopravvivere. Ha paura di affrontare i problemi in maniera diretta. “Sono terrorizzata dall’idea di entrare nella concretezza quotidiana”, tutto resta a livello mentale, manca l’azione efficace.

Nel caso invece di Greta, una paziente ‘al limite’, le retroflessioni sono molto evidenti ed è impressionante la rapidità con la quale si rivelano. Non appena in seduta percepisce qualche sentimento negativo nei confronti di qualsivoglia persona, immediatamente lo trasforma in un sintomo. “Strano, mentre dico queste cose sento una fitta nella pancia”. In altri momenti le viene un improvviso dolore ai denti, che poi subito scompare, oppure è alla gamba che ha un disagio. Anche dietro la retroflessione ci sono ovviamente pensieri che la sostengono e la organizzano. Mentre la stessa paziente sta considerando alcuni comportamenti del padre dai quali si è sentita danneggiata, improvvisamente si interrompe e dice di essere ‘incazzata’ con sé stessa e con me. Subito dopo aggiunge con toni disperati che si vuole distruggere perché non è degna di essere amata da lui, dal padre. Il meccanismo è sostenuto da una profonda convinzione “sono brutta, pesante, invischiante e perciò mio padre mi allontana… mi disprezza, e allora è meglio morire”. Il nucleo centrale è la svalutazione di sé, il pensiero di essere una nullità. A causa dei suoi difetti il padre non poteva amarla, era sua la colpa, era lei che non andava bene e quindi lo libera di ogni di responsabilità. Questo le serve per tollerare il dolore di non essere stata voluta. “Se distruggo lui mi ammazzo, non posso sopportare l’idea di non avere avuto un padre”. È un non averlo avuto in termini di presenza amorosa, che nella sua visione di bambina significò non averlo avuto affatto. Fa male a sé stessa, come dice poi, per salvare l’immagine paterna senza la quale, non potrebbe sopravvivere.

I meccanismi di introiezione e retroflessione pur essendo in certa misura presenti in ogni tipo di personalità, diventano particolarmente attivi ed evidenti nei caratteri invidiosi, tanto da costituire un utile riferimento diagnostico. Nei casi riportati, l’introiezione permette di evitare il contatto con il vuoto profondo, esistenziale. È più rassicurante riempirsi di ‘pezzi’ di esperienza psichica che vengono dall’esterno, pur se restano estranei, piuttosto che vivere la terribile esperienza dello stare con il nulla. La retroflessione consente a Greta di evitare la rabbia, perché protestando e reclamando ciò che mancò potrebbe scoprire il dolore per il rifiuto ricevuto, dolore che nel suo caso sarebbe vissuto come annichilente.

Molte volte la sessualità è compromessa da fantasmi incestuosi che sono il derivato di confusioni cognitive e culturali su sesso, sensualità e affettività. I maschi appartenenti a questa tipologia da piccoli hanno spesso una relazione privilegiata con la madre. Nelle donne invece è presente il ricordo di una stretta relazione con papà che coccola di più e mostra maggior affetto di mamma. Con lui la bambina gioca e scambia effusioni. Poi incomincia a limitarsi per paura di essere fraintesa, papà potrebbe sentirla troppo sessuale, mamma forse si potrebbe ingelosire. Papà stesso allontana la figlia temendo anche lui malintesi. Una paziente riferisce che da piccola era molto attaccata al papà anche fisicamente. “Gli succhiavo le braccia”. E poi continua dicendo: “Mamma si dispiace per quello che faccio… sento colpa e allora devo interrompere il contatto e le possibilità. Non reggo l’attenzione su di me, quella di papà, perché la toglierei a mamma e lei ne soffrirebbe troppo”. Queste tematiche potrebbero indurre a pensare in termini edipici, ma in realtà con l’Edipo hanno poco a che fare. La bambina non vuole sesso con il padre – “mai ho pensato a questo” – e neanche vuole il padre per sé, sottraendolo alla madre. Vive spontaneamente la sua naturale sensualità, le piace il contatto corporeo e soprattutto cerca calore, affetto. In questo intreccio relazionale diventano primari il bisogno d’amore e di protezione, senza i quali la bambina si sentirebbe persa. Deve scegliere e si dirige verso la madre con la quale ha un rapporto profondo e complicato che le impedisce di staccarsi da lei. La relazione con la mamma, per quanto quest’ultima possa essere distratta, spesso sofferente e bisognosa, finisce con il prevalere, sia per i maschi che per le femmine, e la bambina attua quella che io chiamo la ‘rinuncia al padre’. È una rinuncia che vive come uno strappo. Un dolore lacerante che non può sopportare e allontana dalla coscienza. A volte riemerge soltanto dopo anni, spesso durante la terapia, quando magari è troppo tardi per recuperare il rapporto. A facilitare la rinuncia intervenne il fatto che questo padre non si mostrò capace di proteggerla, così come lei si sarebbe aspettata. Non intervenne a difenderla nei confronti della stessa mamma, quando questa la limitò e la punì. Non le apparve più come l’uomo forte e capace che aveva immaginato, mostrò debolezze, spesso fu passivo, concentrato su di sé. E la mamma soffrì a causa sua, come ella stessa, in più occasioni, le confidò. Non solo, ma si sentì anche tradita quando il padre l’allontanò. Non poté più stargli in braccio e finirono i giochi.

La rinuncia al padre condizionerà i futuri rapporti con l’altro sesso. Lei troverà compagni dai quali non si sentirà sufficientemente amata, oppure non si fermerà a lungo con nessuno e, per non compromettersi in scelte ‘definitive’, passerà da esperienza ad esperienza con uomini bambini che difficilmente si assumeranno responsabilità. E così si confermerà nella convinzione che il rapporto con gli uomini è difficile e che non la amano: c’è qualcosa in lei che non va. Però non si arrenderà, segretamente coltiverà l’illusione che un giorno, finalmente, potrà arrivare il principe azzurro. Fantasticherà un riscatto, un tempo nel quale sarà riabilitata o potrà mostrare al mondo intero quanto vale, guadagnando un pieno diritto ad esistere e ad essere amata.

Al momento si muove tra stati depressivi e momenti di grande speranza, alimentata da processi

di idealizzazione e da fantasie illusorie. Passa da sensazioni di non valere a vissuti onnipotenti. Polarità esasperate che ancora una volta facilitano il suo non scegliere e il suo ‘galleggiare’ nella vita. Lontana dalla realtà ripudia il quotidiano che considera povero di stimoli e perciò insoddisfacente.

Il rifiuto ricevuto a volte risale al momento della nascita. Una paziente, nata prematuramente, vive l’esperienza come una espulsione. La madre la manda via, vuole liberarsi di lei, le pesa portarla in grembo. È una simbiosi prematuramente interrotta che la ‘vittima’ vive come angosciante separazione. In futuro tenterà disperatamente di costruire rapporti dai quali contemporaneamente fuggirà, desiderandoli e temendoli allo stesso tempo.

In talune persone si attivano meccanismi fortemente competitivi. Esse tendono a conquistare posizioni di prestigio alla ricerca del loro riscatto. Si tratta di una forma di compensazione al rifiuto vissuto. Elias racconta delle tante botte ricevute dalla madre, madre che per l’altro lo aveva abbandonato lasciandolo ai nonni, quando, a seguito della nascita di un secondo figlio si trasferì in campagna, perché fisicamente troppo debilitata per potere accudire entrambi i figli. Racconta che mentre il fratello scappava per non essere picchiato, lui si fermava, subiva passivamente, convinto di essere colpevole, e contemporaneamente chiedeva perdono. Non voleva perdere ancora una volta la madre. Compensò l’umiliazione e il dolore per tanto rifiuto diventando una persona dalle qualità intellettuali ‘superiori’. Così poteva differenziarsi e prevalere, perlomeno in questa area, sul fratello. Imparò ad usare l’intelligenza e le conoscenze acquisite come strumento per dimostrare il suo valore. Quel valore che gli fu negato in termini d’amore.

La rabbia repressa viene manifestata in questo caso attraverso forme sottili di aggressività nascosta dietro un’attitudine critica e sarcastica che lo rendono antipatico agli occhi dei più. Conosce cose che gli altri non sanno e li disprezza, meschini e limitati come sono dalla loro ignoranza. Lui sa cogliere la poesia; gli altri, gretti e attaccati alle cose materiali, non possono seguirlo nel suo mondo privilegiato. Le donne appartenenti a questa tipologia tendono ad assumere caratteristiche maschili: “Per mostrare che vali devi essere come un uomo… da piccola volevo essere maschio”.

Altri sono più manifestamente aggressivi e mostrano con maggiore evidenza la loro invidia. Ben è persona che pretende. Lo fa in maniera graffiante, rivendica il suo spazio e lotta contro chiunque sembra voglia intralciarlo. È convinto che il mondo non gli dà abbastanza e pertanto non si attiva a cercare soluzioni. Aspetta che altri facciano per lui e, poiché ciò non succede, vive in uno stato di deprivazione che lo rende ancora più arrabbiato. Parte da una posizione vendicativa che gli crea notevoli difficoltà nei rapporti. Compete in vuote dispute che non sortiscono risultato, se non quello di farsi ulteriormente rifiutare. Alla fine può dire, magra soddisfazione: “lo non valgo niente, ma anche tu non vali niente”. Vive in uno stato di perenne eccitazione e non lascia mai la presa.

 

Conclusioni

Molta parte del lavoro terapeutico con il tipo invidioso è centrato nel trovare un punto di equilibrio e di accettazione. Lo stato di invidia costituisce una delle polarità rispetto al punto zero, al quale fa riferimento F. Perls, che possiamo considerare come la condizione di vuoto dal quale nascono i fenomeni; il vuoto fertile in grado di produrre il nuovo equilibrio. Se l’invidia è caratterizzata da uno stato di carenza, vero o presunto che sia, la complementarietà è data dalla soddisfazione, cioè da uno stato di pienezza. Nel tipo invidioso le polarità vengono vissute in maniera particolarmente esasperata, per cui la carenza è uno stato di vuoto insopportabile e la soddisfazione si basa su un’idea grandiosa, che suppone un totale riempimento. Questo ideale, irraggiungibile, produce una forma di attaccamento al risultato gratificante che, per il fatto di non poter mai essere raggiunto, crea un conseguente stato di sofferenza. Infine, paradossalmente, è proprio la sofferenza il motore che mantiene viva la tensione verso i risultati auspicati. Poiché essi non sono raggiungibili nella misura in cui vengono immaginati, la mancata soddisfazione provoca una ricaduta nello stato di carenza. Da qui si riparte. Il risultato terapeutico deriverà dal raggiungimento di una forma di equidistanza tra i due punti polari, che permetta soddisfazioni realistiche e una capacità di ‘contentezza’ che ha implicita l’accettazione delle cose e, fatto veramente difficile, l’accettazione del quotidiano.

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