Pubblicato in: Atti Convegno Nazionale di Analisi Transazionale – Venezia, 1991.
“Il padre e la madre sono i contenitori che simbolicamente rappresentano l’una il principio di sopravvivenza più vicino alla struttura, e l’altro il principio di evoluzione, che si impronta di desiderio di scoperta, di rischio e di libertà”.
Introduzione
Ho scelto questo argomento perché mi permette di affrontare alcuni temi di fondo che riguardano un po’ il senso del fare psicoterapia in relazione ad aspetti della natura umana dei quali abitualmente la psicologia non si occupa. Dico subito che non considero il narcisismo solo una patologia bensì una caratteristica della natura umana che può diventare patologica con vari livelli di intensità, o restare aspetto strutturante della personalità, una caratteristica esistenziale attraverso la quale l’essere umano tende a dare un senso alla propria vita.
Il narcisismo patologico
La patologia è il risultato di una frustrazione. Ciò che viene essenzialmente frustrato nel narcisismo è la tensione connaturata in ogni uomo a realizzare se stesso come essere perfetto. Ogni esperienza che mostra al bambino la sua lontananza dall’essere Dio gli produce sofferenza e favorisce lo sviluppo di meccanismi difensivi che se diventano esasperati, lo portano entro dimensioni illusorie nelle quali fantastica ciò che attraverso il confronto con la realtà pensa che non potrà mai ottenere. L’impedimento alla sua realizzazione proviene certamente dall’ambiente nel quale capita, ma anche da una profonda esperienza, ereditata dal fatto di essere componente del genere umano, che lo mette continuamente a confronto con il suo limite. Il bambino impara presto che tutto quanto lo circonda è governato dalla impermanenza, scopre giorno per giorno che ogni cosa finisce e non si rassegna al suo non esistere. Non può tollerare che un giorno la vita finirà. Con maggiore o minore intensità ogni malessere ha nel fondo questa paura: “il rischio di perdersi nel non esistere” (Ferrara, 1990).
Dal rischio di finire nel nulla proviene il profondo e rassicurante bisogno di struttura al quale tende ogni individuo. La “fame di struttura” della teoria berniana è un bisogno primordiale di definire lo spazio e il tempo del proprio vivere. Abbiamo bisogno di confini per sentirci rassicurati. Allora costruiamo regole, principi, comportamenti, “che investono i nostri pensieri, le nostre emozioni, il nostro corpo, cioè i tre livelli della nostra esistenza, e chiamiamo tutto ciò “lo”. L’lo ci dà sicurezza, ha confini definiti e consente di delimitare lo spazio, l’esperienza entro la quale ci muoveremo. Evitiamo così l’angoscia profonda di creare la nostra esperienza momento per momento, aprendoci alla possibilità, all’ignoto, piuttosto che al conosciuto e stabilito (Ferrara, 1990).
La “fame di struttura”
La “fame di struttura” è l’alternativa compensatoria all’angoscia che deriva dall’incertezza del vivere attimo dopo attimo. Cerchiamo spiegazioni su ciò che siamo e su quanto ci circonda. La struttura ci rassicura e naturalmente ci limita. L’Analisi Transazionale trova le sue radici in una visione strutturale della psiche e in una concezione di tipo freudiano dell’lo, concepito in senso topologico quasi una sede preposta a raccogliere contenuti e ad esercitare funzioni. “La originaria formulazione di organo psichico non fu mai del tutto abbandonata” da Berne (Ferrara, 1991). In questo senso l’A. T. è un modello rassicurante ed offre ai propri operatori strutture ben definite alle quali fare riferimento con teorizzazioni iperdettagliate, griglie e modelli di semplice applicazione, ma spesso riduzionistici e incapaci di cogliere i significati più profondi del malessere umano, che difficilmente si fa definire e comprendere entro limiti strutturali.
Penso che l’A. T. abbia pagato questa sua tendenza allo schematizzare con poco consenso in ambito scientifico, avallato dalla diffusione di una riduzionistica filosofia basata sull’Okeiness che propone una immagine semplicistica di una visione ben più profonda che la psicologia umanistica andava diffondendo e alla quale probabilmente lo stesso Berne si ispirava. Una visione positiva dell’uomo da contrapporre alla concezione di “uomo colpevole” (Kohut, 1979) della tradizione psicoanalitica al quale contrapporre “l’uomo tragico” che è arbitro del suo destino. La capacità attualizzante della psicologia umanistica, lungi dall’essere un semplicistico “valgo perché esisto, valgo in ogni caso“, che avallerebbe le tendenze narcisistiche, prevede un profondo impegno verso lo sviluppo e la crescita, perché anche se questa capacità è connaturata, nessuno garantisce che verrà conseguito il risultato. L’okeiness non è un diritto di nascita, ma una conquista. Prevede un rischio e un’assunzione di responsabilità per il proprio vivere.
Il senso di libertà
Complementare alla fame di struttura, viviamo un profondo e antitetico bisogno di “libertà”. Nonostante la paura e il bisogno di certezze l’uomo non può rinunciare al mito della propria libertà. Il senso di autoregolazione è presente in ogni parte di sé, in ogni “cellula”. Siamo programmati per vivere l’esperienza nel suo evolversi, al di là dei ruoli, nella processualità. L’organismo procederebbe naturalmente verso il completamento di “organizzazioni successive, in un ciclo perenne di trasformazione”. Il ciclo della vita è un continuo “dibattersi tra le polarità estreme di un rassicurante bisogno di struttura e di un creativo ma rischioso bisogno di libertà (Ferrara, 1990).
Penso che anche un sistema teorico in quanto imitazione della realtà segua il principio di base della teoria della Gestalt, per il quale ogni organismo tende al suo completamento. Così mi sembra sia successo per l’AT. Nata come teoria strutturale, si è arricchita nel tempo di elementi evolutivi ed ha sempre più integrato nel suo corpus teorico il modello antitetico e complementare, quello gestaltico, che quasi parallelamente si sviluppò sul versante polare. Schiva delle strutture e degli approfondimenti teorici, la Gestalt si sviluppò soprattutto come modello esperienziale ed esistenziale, più interessata al processo che al contenuto e più agli aspetti della crescita e dello sviluppo personali che non a quelli della patologia e della cura in senso medico. Sembra che i due modelli necessitassero dell’incontro per completare le gestalt dei due approcci teorici, senza dimenticare le comuni matrici psicoanalitiche. Da queste premesse ne deriva a mio parere una possibilità di riformulazione in termini integrati delle basi teoriche dell’A.T. per quanto riguarda la concezione degli Stati dell’Io in relazione alla teoria del Copione.
L’approccio terapeutico
Dicevo in un precedente intervento alle “Giornate Sorrentine” (1990) che la teoria del Copione sembra distaccarsi dal modello strutturale e si proponga come “più prossima alle concezioni che si focalizzano sulla capacità evolutiva di cui è dotato l’individuo che entra in relazione all’ambiente e quindi alle teorie che si occupano delle relazioni oggettuali e dei processi di adattamento”. Questo comporta una visione terapeutica per la quale viene data attenzione alla persona nella sua globalità e non soltanto ad alcuni dei suoi aspetti, siano essi i meccanismi difensivi o i principi vitali quali le pulsioni o gli istinti nella teoria freudiana. La conseguenza è una profonda revisione delle concezioni sull’uomo, in atto nella stessa psicoanalisi, non più visto secondo un modello di tipo medico ma in un’ottica esistenziale. Berne a mio parere ne fu profondamente influenzato, d’altra parte la psicologia umanistica si respirava nell’aria, ma probabilmente non ebbe il tempo o forse non ebbe l’intuito sufficiente per riportarlo nelle sue teorie. Lasciò a mio parere una frattura fra le concezioni degli Stati dell’lo e la teoria del Copione, tra il modello strutturale e quello evolutivo. L’ipotesi che ripropongo in questa sede, che potrebbe stabilire il ponte, si ispira alla concezione del sé elaborata da Paul Goodman come base teorica della psicoterapia della Gestalt.
La definizione del Sé
Goodman (1971) definisce il sé come “il complesso sistema di contatti necessari per l’adattamento in un campo dotato di una qualità di spontaneità che produce attraverso lo scoprire e inventare l’adattamento creativo“. Secondo questa ipotesi teorica il Sé non è un’istanza fissa, un essere, ma piuttosto un “essere nel mondo”. L’Io è concepito come una funzione del Sé, così come lo sono l’Es e la Personalità ed ha come caratteristiche fondamentali quelle di essere deliberato e intenzionale, dotato di creatività. I fenomeni strutturali sono conseguenti al contatto dell’organismo con l’ambiente, attraverso processi di identificazione e di alienazione ai quali conseguono formazioni che si organizzano in strutture stabili nel tempo. L’Io, quindi, non è di per sé una struttura, ma una funzione dalla quale provengono strutture. Di conseguenza, l’ipotesi che propongo è di considerare le strutture come il risultato di quel movimento che compie l’organismo verso il suo completamento attraverso una costante successione di episodi di contatto. In questa ottica è vero che le strutture hanno una base biologica, nel senso che l’organismo costituisce lo sfondo, una memoria che le ricorda.
In questo senso sono dei contenitori formatesi successivamente all’operazione creativa messa in atto dal sé mediante le sue funzioni. Il rischio di confondere i contenitori con i processi che hanno creato i contenuti in essi depositati. Sono i processi rilevanti per cambiare la direzione dell’energia e produrre il cambiamento e non i loro effetti strutturali. Pertanto è soprattutto sui processi, sulla capacità di movimento dell’organismo che bisogna agire in terapia.
Ritengo che quanto esposto costituisca un valido tentativo di connessione tra la teoria del Copione e quella sugli Stati dell’lo e che possa attribuire un valore diverso al concetto di struttura, considerandola come risultato finale di un insieme di fenomeni. Per esempio lo Stato dell’Io Bambino diventa una struttura creata dall’lo intendendo quest’ultimo come funzione del Sè. Il Bambino si forma in un determinato periodo e per successive aggregazioni nell’arco della storia evolutiva di un individuo, per effetto dell’incontro tra organismo e ambiente a seguito del quale viene a formarsi una specifica struttura che diventa aspetto rigido della personalità entrando a far parte del carattere (Ferrara, 1991). Secondo questa ipotesi l’analisi degli Stati dell’Io, come di qualsiasi altro aspetto strutturale, non è di per sé esaustiva, è solo un momento del più ampio processo terapeutico che allargandosi oltre la struttura deve contenere l’attivazione delle istanze vitali insite nella capacità attualizzante del sè che si manifesta in quel processo che in Gestalt viene definito “adattamento creativo”.
ll Sè viene quindi inteso come centro motore, nucleo promotore dell’esperienza, ben oltre il livello psichico. ll Sè possiede la ‘capacità attualizzante’ e l’energia capace di promuovere “l’adattamento creativo” e quindi il cambiamento. ln questa ottica l’attenzione del terapeuta va rivolta soprattutto verso le forze vitali del paziente, la sua sanità piuttosto che verso la patologia, per riattivare il movimento energetico che è rimasto bloccato. Con l’analisi delle strutture si possono individuare molti aspetti della personalità ma non otterremo grandi risultati se non andremo a sciogliere i blocchi che nelle strutture si sono fissati.
Analogo discorso vale per l’Adulto e il Genitore. Anche l’Adulto risponde allo specifico modello di cosa è Adulto in quel tempo, in quel gruppo e secondo una teoria. Anch’esso è quindi una struttura rigida. È ben diverso quando la guida diventa la propria consapevolezza piuttosto che il principio e la regola riconosciuti dal gruppo sociale. Naturalmente la scelta di consapevolezza non esclude il rispetto della regola, ma cambia il livello di responsabilità. Introiettare la regola o sceglierla comporta la differenza che passa tra un Adulto e un Bambino Adattato mascherato da Adulto.
Principio di conservazione e principio di evoluzione
Procedendo per polarità e principi piuttosto che per risultati definitivi, mi sembra che sono strettamente collegati al bisogno di struttura e al bisogno di libertà quelle che F. Perls considera le due tendenze fondamentali di ogni essere umano, dalle quali discendono tutti i bisogni sia di ordine fisiologico che di ordine psicologico: sopravvivere ed evolversi (Perls, 1977), istanze che corrispondono rispettivamente ad un principio di conservazione che tende alla protezione, e quindi a formare strutture, e ad un principio di espansione che tende alla realizzazione e all’evolversi in senso ampio, oltre i confini dell’Io verso la propria natura. Mentre le patologie più regressive, di tipo psicotico, sono effetto di inadeguata accoglienza e protezione ove la sopravvivenza e l’esistere sono messe in dubbio, il narcisismo è territorio del principio di evoluzione ed emerge con maggiore evidenza quando il bambino incomincia ad avere il senso della differenziazione tra sé e l’altro, pur non essendo questa percezione così sufficientemente sviluppata da permettergli una piena comprensione di essere un individuo separato. In realtà veramente separato non lo sarà mai. Fa parte della natura umana e dell’essere individui sociali dipendere dagli altri. Tutto ciò che facciamo è per effetto del fatto che siamo individui in un campo e questo comporta un legame che forse è inappropriato definire dipendenza, ma sicuramente produce un agire in rapporto ai fenomeni che ci circondano. Kohut (1986) affermava che abbiamo bisogno di oggetti – sé durante tutta la vita. La piena autonomia, che non appartiene all’essere umano, è nella realizzazione del sé al di là del limite contingente, quando l’individuo diventa consapevole della sua natura che è al di là di ogni limite, intraprende la via della saggezza.
Finchè l’uomo possiede un organismo e vive in relazione ad altri, ha un profondo bisogno di essere riconosciuto e apprezzato e questi bisogni sono le manifestazioni più esteriori e quindi più facilmente contattabili del principio di evoluzione. Una volta che si è garantita l’esistenza, il bambino cerca di più. “E’ importante esistere, sì, ma con valore” (Ferrara, 1991). In realtà i principi sopra indicati sono strettamente connessi. La capacità di adattamento che determina la formazione dell’Io e dei suoi confini, è una qualità del principio di evoluzione. Il desiderio di essere riconosciuto e apprezzato determina la partecipazione e l’inserimento nel mondo sociale e saranno gli altri a rispecchiare quanto valgo. Non mi sembra che ci sia “una graduatoria di importanza tra il sopravvivere e l’essere riconosciuto. La capacità di adattamento difende sia la sopravvivenza che l’evoluzione, qui intesa come affermazione e realizzazione di sé. C’è una forte intenzione auto affermativa e desiderio di riconoscimento nel bambino che si adatta” (Ferrara, 1990).
L’adattamento è il risultato dell’incontro tra il potenziale libero del sé, dotato di spontaneità, e l’ambiente limitante che sollecita la costruzione di strutture difensive e compensatorie. La tensione ad essere perfetto è connaturata nell’essere umano e non è solo manifestazione patologica. Ci sono aspetti sani nel narcisismo che è opportuno considerare e non svalutare in terapia. Non si può confondere come onnipotenza patologica l’aspirazione a raggiungere il mondo del soprannaturale che ogni individuo porta in sé. La naturale tendenza alla realizzazione e alla saggezza, la ricerca della propria immortalità, attraverso il superamento del reale contingente per la ricerca di più ampi stati di coscienza che vadano oltre l’Ego, sono ben diverse se inserite in un sano processo di crescita, dall’allucinazione o dalla grandiosità compensatorie di chi cerca nello speciale, nel diverso una modalità per riempire l’angoscioso vuoto che permea la sua esistenza, negandolo nell’idealizzazione.
La destrutturazione dell’Ego
La destrutturazione dell’Ego con consapevolezza e presenza è strumento di crescita e non di regressione. Il terrore di non esistere se l’Ego non esiste e cioè se si perdono i riferimenti e i confini diventa patologico per effetto dell’attaccamento alla nostra struttura nella quale ci identifichiamo. Ma non siamo la struttura, la struttura è contingente e conseguenza della casuale relazione di un organismo immesso in un campo. Se cambia la struttura muore il mio Ego, ma non la mia natura profonda. Questo lo psicotico non lo può intendere ed il nevrotico stenta ad accettarlo. La confusione tra sé e immagine di sé, e il narcisistico identificarsi con la propria immagine è causa di ogni patologia ma anche, più profondamente, del malessere esistenziale dell’essere umano. Tornando agli aspetti sani mi sembra fondamentale non reprimere gli impulsi esibizionistici del bambino. “Il suo modo spavaldo di affrontare il mondo, senza considerazione di limiti, producono sviluppo e crescita e, se ben integrati, una visione stimolante e fiduciosa della vita” (Ferrara, 1991).
La limitazione e la carenza trasformano l’innocenza e la spontaneità, la curiosità e l’entusiasmo creativo in rigida fissazione e il Bambino naturale perde la freschezza istintiva e trasforma le sue doti in arroganza aggressiva. Per R. non era il sognare di essere un pittore famoso che andava frustrato anche se erano le prime volte che usava il pennello, ma il fatto che ambiva a diventarlo senza voler mettere alcun impegno di apprendimento. Si aspettava che avvenisse e basta, per dono naturale. Con siffatta attitudine diventa antipatico, freddo, interessato, insegue la sua gratificazione. Mette il suo Io al centro del mondo per compensare la ben più amara consapevolezza che è molto lontano dall’essere al centro. Anche il bambino più amato perde crescendo l’attenzione benevola e l’amore incondizionato. Diventa più attivo nel reclamare quanto gli serve, “scopre la sessualità, diventa più calcolatore nella manipolazione”, il papà e la mamma perdono considerazione. “Cominciano a viverlo come insopportabile”, ciò che prima li divertiva ora diventa fastidioso e l’educazione diventa sempre più repressiva (Ferrara, 1990).
La negazione del divino
Neanche condivido la tendenza di quanti, professandosi atei, tendono a reprimere nei figli la loro naturale tendenza al divino. I bambini ne hanno bisogno. Non possono tollerare una vita senza futuro e senza prospettive. La cultura laica a mio parere danneggia fortemente il sentimento di speranza che dà un senso al futuro. Non credo che un adulto lo tolleri veramente, se non per grossolani processi di rimozione, sono sicuro che i bambini non lo vogliono. Le loro fantasie sono popolate di angeli e demoni. Amano identificarsi negli essere superiori e non importa quale sia, ma hanno bisogno di un Dio. Il prezzo che pagano, quando ne vengono privati, è la freddezza emotiva e il vivere in un passaggio piatto.
Le figure genitoriali
Ogni principio ha una sua rappresentazione generale ed una più specifica che si traduce in esperienze concrete e contattabili. Se consideriamo la sopravvivenza e l’evoluzione come i principi che regolano l’esistenza e lo sviluppo umano, il mondo oggettuale è il territorio nel quale l’uomo può concretamente esistere e il padre e la madre sono i contenitori che simbolicamente rappresentano l’una il principio di sopravvivenza “più vicino alla struttura”, e “l’altro il principio di evoluzione”, che si impronta di desiderio di scoperta, di rischio e di libertà. (Ferrara, 1991). Il bambino nel suo processo di crescita ha bisogno di integrare il padre, simbolo di affermazione e di assertività, che gli insegni i valori dell’esistenza e una via per realizzarsi. Il padre è simbolo di conoscenza. Il viaggio di Ulisse è la metafora del rischio e del pericolo dell’addentrarsi in un viaggio interiore. Il ruolo di Penelope è rivolto alla conservazione. Nelle tradizioni spirituali l’iniziato è stato sempre affidato ad una guida, ad un maestro. Ciò avviene anche nella cultura occidentale. Dante sceglierà Virgilio, perché lo accompagni nelle fasi più ardue del suo viaggio interiore. La prima guida è il padre. Permette al bambino di muovere i primi passi nel mondo. “Diventa disperato quando gli manca il modello a cui ispirarsi”. “Si sente piccolo e impotente precipita in un vuoto senza speranza. Inventa gli eroi. ll padre rappresenta la polarità della madre che offre il dolce rilassamento degli abbracci fusionali, che insegna lo stare, il lasciarsi perdere nella contemplazione.
Analogamente precipita nel vuoto quando la fusione si interrompe. Il piccolo, che si separa alla nascita così come nelle fasi successive del suo sviluppo, sperimenta la perdita della sua esistenza, che vive come un tutt’uno con quella della madre (Ferrara, 1991). Riempire questo vuoto, acquistare il senso dell’esistere dentro e al di là del vuoto, senza sostegni provenienti dall’esterno, sarà il punto centrale da affrontare in terapia, i narcisisti come per qualsiasi altra patologia.
La funzione del padre
Mi sembra che nella sottofase di riavvicinamento, considerata dalla Mahler, come il momento del processo di separazione – individuazione nel quale il bambino sente il bisogno di condividere le propre esperienze e di trovare protezione per le sue paure e in tutti i momenti in cui sperimenta vissuti simili, sia importante il sostegno del padre e la presenza del modello rassicurante. Per chi soffre di disturbi narcisistici, il naturale desiderio di autonomia e la tensione ad andare diventano compulsivi e assumono la forma di una vera e propria “angoscia di perdita dell’autonomia” (Dreitzel, 1989). Ciò avviene quando l’esperienza con l’altro è stata poco vitalizzante e ha favorito la repressione della creativa tensione a fare. Dipende molto dal padre fornire un adeguato modello sul come fare. Non è sufficiente il solo messaggio sociale “fai” se non è congruente con il messaggio psicologico e se è privo di un contenuto protettivo sul “come fare”, basato su dati realistici piuttosto che su insegnamenti formali. ll messaggio resta una controingiunzione, inefficace o addirittura deleterio, se non contiene un permesso a livello più profondo (Ferrara, 1991).
Il processo di idealizzazione
Quando la realtà ambientale non risponde alle esigenze del bambino in maniera soddisfacente questi trova rifugio nel suo Piccolo Professore che detiene la facoltà idealizzante ricca di capacità compensatoria. Quando l’idealizzazione resta nei limiti della creatività spontanea favorisce la crescita e le offre prospettive. È diverso quando viene utilizzata per coprire l’angoscia di solitudine e il vuoto di fronte ai quali si trova un bambino bruscamente separato o lasciato vivere in un mondo poco accogliente, freddo nei contatti, senza sufficienti stimoli e riferimenti sicuri. Allora l’idealizzazione fornisce sostegno vitale e soddisfa compensatoriamente il bisogno di esserci, di far parte, di essere apprezzato, di sapere cosa fare. Allorché l’idealizzazione perde il contatto con il bisogno originario, perde la sua fresca creatività e diventa rigido tratto caratteriale nell’adulto che sta inseguendo ancora lo stesso bisogno, ripetendo modalità che ormai non possono più pagare. Di fronte alla sfrontatezza narcisistica, sprezzante e offensiva, il terapeuta non può che guardare dietro la maschera per vincere il suo rifiuto e scoprire il bambino impaurito, desideroso di avere uno spazio nel mondo, un diritto ad esserci. È pieno di curiosità, disposto a rischiare eroicamente ed ha una gran paura di non farcela perché si sente piccolo e impotente. Nasconde un bisogno di rispecchiamento dietro la sua chiusura e se lo aspetta dal terapeuta quando ne chiede l’apprezzamento, mettendosi al centro per sentirsi dire ‘bravo’. Ancora non ha completato il processo di separazione dalla madre dal cui occhio rilucente (Kohut, 1976) si aspetta la conferma di esserci.
In mancanza di questo rischia di cadere in un traumatico non esistere poiché ancora come oggetto-Sè, bambino indifferenziato, vive la separazione dall’intero di cui si sente parte come un precipitare nel nulla, nel vuoto assoluto. Ha bisogno di idealizzare il terapeuta sulla cui immagine riversa i desideri riposti nel padre. Un’immagine ‘forte’ che gli insegni ad affermarsi nella vita. Il padre protettivo al quale fare riferimento, chiaro e congruente, assertivo ed autoaffermativo.
Ulteriori aspetti relativi ai processi di idealizzazione e alle dinamiche sottese alla formazione delle difese narcisistiche, con particolare attenzione alla funzione del Piccolo Professore, corredati di esempi clinici, ho approfondito in Appunti sul Narcisismo (1991), articolo dal quale ho tratto molto del materiale utilizzato in questa sede.
Considerazioni per la terapia
Dall’attenzione data a questi temi e attraverso una costante osservazione dei pazienti ho tratto sempre più la convinzione di quanto sia importante nel processo di autonomia il ruolo del padre e di quanto questi rappresenti la porta di uscita nel mondo. La delusione che viene da lui può arrestare lo sviluppo altrettanto che le carenze che vengono dalla madre. l limiti di entrambi possono facilitare il costituirsi di un vuoto esistenziale vissuto drammaticamente. Mi sembra molto importante che il terapeuta tenga presente che mancò congruenza e coraggio e che pertanto mandi messaggi chiari e coerenti, non come il papà “fanfarone” che dice “lo non sbaglio” pensando così di mantenere l’autorità, ma come uomo consapevole che può sbagliare e non per questo si lascia irretire, commuovere o impressionare dal ricatto. È un lavoro che spesso richiede molta energia e impegno emotivo. Con i pazienti che giocano a “Non ce la farai ad aiutarmi” si può accettare la sfida. Non dare spazio ai lamenti. Bloccare i ricatti. Rifiutare le colpevolizzazioni. Sostenere la propria posizione con coerenza nonostante gli attacchi e accettare la sfida e la lotta per il potere può favorire la costruzione dell’autostima nel paziente, anche se inizia con una proiezione sul terapeuta. Il messaggio che recepisce è: “Se lui ha coraggio ed e coerente, anch’io posso uscire dalla mia vigliaccheria e affrontare la realtà”.
Il terapeuta si scontrerà con la colpevolizzazione e non può permettersi di aspirare ad essere perfetto se vuole resistere agli attacchi. “Non sono perfetto”è il messaggio che invierà “e nonostante questo mi rispetto”. D’altra parte il paziente con disturbi narcisistici ha vissuto un Genitore Affettivo carente, spesso presente solo sul versante iperprotettivo e falsamente caldo e accogliente. Ha così imparato a non amare ed è centrato su di sé. Amare è rischioso, prevede la perdita e l’abbandono, meglio non coinvolgersi con gli altri. Li utilizzo per quanto mi servono ma non di più. L’impiego del GA da parte del terapeuta è quanto mai importante e altrettanto difficile. Spesso il suo vissuto sarà di sentirsi sfruttato ed è difficile accettare che il paziente ti sta solo utilizzando. Questo grave colpo al narcisismo del terapeuta può essere un momento importante per la sua crescita. Può imparare la compassione che va un passo più in là dell’amore perché non richiede scambio. È un dare senza richiedere, un sentimento molto profondo di solidarietà per la comune sofferenza umana.
L’obiettivo della terapia
Ritengo che l’obiettivo della terapia non sia di abbattere l’ideale o il modello di perfezione al quale il paziente si ispira, ma che piuttosto debba essere indirizzata ad eliminare la tendenza a rifiutare e negare gli aspetti ritenuti negativi, come ad esempio la debolezza, la fragilità, l’essere limitato. ll mito narcisistico è che se elimino ciò che considero limitante o spregevole della mia personalità, mi salverò. Per questo ingaggia una lotta spietata con se stesso attivando un Genitore critico estremamente persecutorio.
Nulla di più falso, niente può essere tagliato dalla nostra persona. La saggezza è raggiunta quando si supera il dualismo tra buono e cattivo e mi accetto nella mia globalità. Non c’è niente da eliminare in me, finché sono in questa concezione continuo a mettermi in trappola. Una trappola che sembra un paradiso perché è piena di belle idee, ma pur sempre una trappola. Non c’è altra possibilità che accettare l’handicap, come stato della condizione umana. Se do spazio allo spastico che vive in me nasce una nuova comprensione verso me stesso e verso gli altri. Non abbiamo bisogno di grandi ideali, il nostro valore è la crescita e lo sviluppo interiore e questo si manifesta attraverso l’accettazione di sé e non attraverso l’aspirazione a cose nobili.
Quando l’handicappato accetta il suo limite è sereno, non ha bisogno di nascondersi o di fingere con sé stesso una illusoria superiorità. Per questi obiettivi il terapeuta ha bisogno di coltivare la sua crescita personale . Voglio concludere questo intervento ricordando un racconto riportato da Buber nelle sue storie Chassidiche che mi sembra significativo per una visione della terapia che non si fermi nel tempo e sia attenta ai valori della crescita personale.
Un carceriere impressionato dalla maestà e dalla espressione tranquilla del rabbino che teneva prigioniero cominciò a fargli domande sulle Sacre Scritture e in particolare sul significato da attribuire alla domanda fatta da Dio ad Adamo: Dove sei tu? ll rabbino spiegò al suo guardiano che in ogni epoca Dio chiede ad ogni uomo “dove sei tu nel mondo”. La domanda di Dio significa qualcosa del genere, disse il rabbino: hai vissuto 46 anni, quanto lontano sei arrivato rispetto al tempo che hai avuto a tua disposizione? Quando il capo delle guardie sentì menzionare la sua età, si fece animo e poggiò la mano sulla spalla del rabbino gridando: bravo! Ma il suo cuore tremò. “Dove sei ora” è una domanda fondamentale. “Dove sei realmente ora, non dove vorresti essere o stai sognando di essere”.