Pubblicato in: Informazione Psicologia Psicoterapia Psichiatria – n. 21, 1994.
“Tutte le nevrosi sono una ricerca disperata dell’essere che “riposa” in una perdita dell’essere”.
Intervista raccolta in occasione dei Seminari di Psicologia degli Enneatipi, la caratterologia fondata sull’Enneagramma, tenuti dal Prof. C. Naranjo a Napoli neII’autunno 1992.
So che non ti piace il termine “transpersonale”, parola che viene molto usata per definire un particolare tipo di approccio alla psicologia.
Credo che sia una parola evocativa. In realtà l’ho utilizzata nel mio primo libro “The one quest” prima che entrasse in uso. Poco dopo aver scritto il capitolo in cui compariva la parola “transpersonale”, usciva la rivista di Psicologia transpersonale e poi scoprii che anche Jung aveva usato questo termine. Forse la prima persona ad usarla fu Rudhyar, un astrologo francese.
La ritieni una parola evocativa. Puoi dire di più?
Nonostante sia una buona parola per designare quello che si trova oltre la personalità, oltre il corpo e le emozioni, oltre l’intelletto, mi sembra che sia stata usata come eufemismo per evitare di usare il termine “spirituale” e, in questo senso, diventa una parola propagandistica, un poco astuta, utilizzata per sembrare più scientifici ed essere accettati nel mondo della psicologia, nel quale la parola “spirituale” viene associata al religioso e quindi potrebbe risultare antiscientifica.
Quindi nutri dei dubbi sulla scientificità del movimento transpersonale?
Di fatto non mi sembra che sia più scientifico dei movimenti religiosi. Si potrebbe giustificare l’eufemismo e questa strategia, se il movimento transpersonale fosse più scientifico di quello che è. Io personalmente, sebbene sia stato definito uno dei pionieri della psicologia transpersonale, non l’ho usata nel mio lavoro se non raramente e non mi sento vicino alle persone che si definiscono “psicologi transpersonali”. Non ho una grande ammirazione per questo “circolo”.
Quali sono le tue idee circa la possibilità di integrazione tra psicoterapia e psicologia transpersonale?
Invece di parlare di integrazione tra psicoterapia e psicologia transpersonale, come se la psicologia transpersonale fosse qualcosa di definito, preferisco rispondere alla domanda: come integrare la psicoterapia con la spiritualità.
Mi sembra molto interessante, mi piacerebbe che ne parlassi di più.
Otto anni fa, in occasione di un congresso della Società di Psicologia Umanistica europea in Svizzera, ho avuto un incontro con Keyserling che forse è il più interessante dei rappresentanti della psicologia transpersonale in Europa. Egli parlò per primo e io gli facevo da traduttore dal francese cosicché feci molta attenzione a quel che diceva. Disegnò una piramide alla lavagna mostrando l’evoluzione di tutte le psicologie, dal comportamentismo, attraverso la psicoanalisi, alla maggiore sofisticazione della psicologia umanistica, poi le diverse fasi della psicologia esistenziale culminando con la psicologia transpersonale, come vertice della piramide. Dopo di lui ho parlato io e ho detto che, sebbene cronologicamente questo sia stato lo sviluppo delle tendenze nella psicologia, mi sembrava che la psicologia transpersonale fosse una scatola vuota. Se vogliamo trovare in essa un vero contenuto, meglio cercarlo nelle psicologie transpersonali prescientifiche: nella psicologia del Buddhismo, nella psicologia implicita nel Sufismo e addirittura nella comprensione psicologica dei Rabbini, in generale in tutte quelle tradizioni spirituali che hanno trattato gli aspetti psicologici in maniera “saggia”. Più si evolve la psicologia meno troviamo quella che può chiamarsi “psicologia transpersonale” che oggi è spesso, in definitiva, un modo di nascondersi e poter dire: «la psicologia transpersonale lo dice». ln realtà è un’intenzione molto buona quella di avvalorare ciò che nel campo psicologico non rientra nell’orbita scientifica, per avvalorare un interesse per il paranormale, la creatività, la psicologia della religione e così via. L’intenzione esiste, però non esiste un corpo unitario di conoscenze, anche se molte persone lavorano per contribuire alla sintesi attingendo un po’ da una parte e un po’ dall’altra. Per esempio in Svizzera, c’è uno psicologo ceco, il cui nome non ricordo in questo momento, che conosce molto bene il Buddhismo Hinayana e che ha scritto sull’integrazione tra la concezione della psicologia dell’Abhidarma e lo Psicodramma. Egli conosce lo psicodramma profondamente e quindi scrive di una psicologia antica stabilendo le connessioni con quella moderna. Allo stesso modo altri stanno facendo piccole integrazioni. Stando cosi le cose, mi sembra un poco artificiale parlare della “psicologia transpersonale” come se fosse un corpo integrato di conoscenze.
Quindi si può dire che sono integrazioni che vanno ad arricchire il corpo della psicologia occidentale classica aprendola a nuovi e più ampi orizzonti.
La psicologia transpersonale afferma che esiste il transpersonale, cioè che esiste lo spirituale, che esiste un ambito di esperienze che vanno ben oltre le esperienze interpersonali o le esperienze di relazione con gli oggetti del mondo fisico. Esiste il mondo che a volte viene detto “della coscienza”, perché si usa molto chiamarla “psicologia della coscienza”, e al di fuori di questo il fattore spirituale è anch’esso terapeutico. Non solo è terapeutico comprendere la psicodinamica, non solo è terapeutico lo sforzo di cambiare il comportamento, ma anche l’esperienza di coscienza espansa, la coscienza del divino e, per ultimo, “la coscienza della coscienza” è un fattore importante nella psicoterapia. Io aggiungerei che non solo questo ma anche la prospettiva del cammino interiore è terapeutica. È terapeutico, per una persona che si trova in una fase di cambiamento, comprendere questo processo come qualcosa che va più in là della cura dei sintomi, o più in là dell’adattamento sociale, dunque, capire un po’ la natura della trasformazione, del fine ultimo. In termini molto generali, conoscere qualcosa che tradizionalmente è stato chiamato “gli Insegnamenti”: insegnamenti rispetto al destino umano, alla natura del cammino interiore.
A volte, quando si parla in questi termini, le persone più “scientifiche” pensano che si vada nel misticismo, nell’astratto, in quello che solo la religione può raggiungere, invece so che nel tuo lavoro c’è grande concretezza e attenzione ai risultati verificabili. Quale potrebbe essere l’elemento terapeutico trasformatore, in senso transpersonale, per come tu lo intendi?
lo credo che un fattore che si può chiamare transpersonale è il fattore della coscienza in se stessa. ln realtà la coscienza non appartiene al mondo del corpo, non appartiene al campo volitivo, non appartiene al campo affettivo né al campo cognitivo, secondo il significato corrente. L’attenzione a sé, quando diventa pratica quotidiana, è un fattore transpersonale. Direi di più: il livello di attenzione di una persona è un’energia che si irradia e l’esperienza gruppale è un fattore molto importante di questo passaggio di attenzione attraverso il quale anche le parole producono un effetto amplificato, come se fosse puntato un faro luminoso su ciò che si osserva. Nella Gestalt, in modo particolare, l’attenzione è molto più che un mezzo per scoprire qualcosa, l’attenzione è un fattore di sanità in se stesso. Si può dire che la Gestalt ha la pretesa di restaurare la capacità di attenzione, la capacità di stare nel qui ed ora, che non è stare qui ed ora per capire qualcosa del passato, ma piuttosto di capire “a volte” qualcosa del passato per poter stare qui ed ora. È fine a se stessa, è come un diritto, qualcosa che appartiene alla salute e che merita di essere restituito all’uomo. Anche l’amore lo considererei un fattore transpersonale, però la maggior parte delle volte quello che chiamiamo amore è un amore in fondo seduttivo, un amore-piacere che significa ricerca di gratificazione dei nostri impulsi istintivi o passionali. Il vero amore è uno stato senza oggetto, il vero amore ama tutto quello che gli viene posto davanti. È come un’allegria senza fine, senza finalità. È anche parte della salute, di modo che se c’è amore, uno ama se stesso e chi gli sta davanti. Tanto è più grande l’amore quanto meno è condizionato. Con questo non voglio dire che l’amore debba essere incondizionato, senza limiti, manche la natura del vero amore è come una luce che irradia in tutte le direzioni. Non si ama “per la tale cosa”, perché ci gratifica, perché ci approvano, perché ci danno amore o perché una persona ha determinate caratteristiche, determinati meriti, ma piuttosto si ama il “tu”, l’altro, si ama l’essere che c’è dietro ognuno. Questa qualità di amore, che è parte integrante di tutte le tradizioni religiose, è un fattore transpersonale.
Mi sembra che nel tuo lavoro insegni a sperimentare e a contattare le esperienze alle quali fai riferimento attraverso tecniche specifiche e questo mi sembra il passaggio più difficile.
Sì, io sono stato, molto pratico nel mio avvicinamento a questi argomenti e mi sono dedicato, per esempio, a tradurre certi principi della meditazione sul piano interpersonale, sviluppando tutto un capitolo sulla meditazione relazionale o estensioni interpersonali della meditazione.
Questo vuol dire anche riportare il livello cosiddetto transpersonale a una concretezza immediata, a qualcosa cioè che si può sperimentare subito, nella vita quotidiana.
Si dice nelle tradizioni antiche che la meditazione idealmente dovrebbe espandersi in tutte le situazioni della vita. In realtà è molto difficile e c’è bisogno dell’allontanamento dal mondo per ritornare al mondo con un contatto più profondo con sé o con un maggior sviluppo della propria capacità di attenzione. Però non è necessario aspettare dieci anni affinché si compia lo sviluppo, come nel buddhismo Zen in cui la persona ha bisogno di sperimentare molti “satori” progressivi prima di poter fare la pratica quotidiana spontanea. Fin dall’inizio del mio lavoro ad Esalen, negli anni ‘60, mi sono occupato di accelerare il processo di meditazione nella pratica da soli ma anche “faccia a faccia” con un altro. È un po’ come nello spirito di tutte le riunioni religiose nelle quali viene validata la sacralità della comunità, come nel Vangelo quando Cristo dice: “Se due si riuniranno nel mio nome io sarò presente”. Io credo che ciò sia valido anche se due persone meditano insieme. Stando uniti nasce un potere speciale e nonostante ci sia una certa difficoltà ad entrare in contatto con sé stesso stando di fronte ad un altro, ad entrare in contatto con la propria esperienza di fronte alla potenziale distrazione di un testimone, è anche vero che c’è un elemento di contagio e le due cose si compensano. Mi sembra che per certe persone sia più facile la meditazione solitaria e per altre invece sia più facile la meditazione condivisa, forse questo ha una relazione con la introversione e l’estroversione.
Come collochi il tuo lavoro, ormai ventennale, con l’Enneagramma e la Psicologia degli Enneatipi nella concezione che stai presentando di incontro tra spirituale e psicoterapia?
Tutto quello che è relativo all’applicazione dell’Enneagramma è una psicologia pre-scientifica che però facilmente si può tradurre in una terminologia scientifica, perché il fatto che sia cronologicamente antica non vuol dire necessariamente che sia meno scientifica della psicologia freudiana. Quello che ho fatto io rispetto a questa particolare psicologia transpersonale è stato di svilupparla e renderla più esplicita di quello che era quando l’ho ricevuta attraverso una trasmissione orale, perché non esisteva niente di scritto in quel tempo, e l’ultima tappa di questo sviluppo è la formulazione nella quale mi sono impegnato, di una teoria transpersonale della nevrosi. Una teoria che mette l’accento non sulle vicissitudini dell’istinto, come nella tradizione freudiana, ma su un fattore molto centrale: la perdita dell’essere. L’esperienza del vuoto o l’esperienza dell’alienazione di se stesso, l’esperienza che R.D. Laing ha chiamato “insicurezza ontica” e che io preferisco chiamare “carenza ontica”. La mia visione è che tutto il mondo passionale o tutto il monde della libido, non di eros bensì della libido, perché mi piace fare una distinzione tra queste parole, il mondo dei desideri quindi, è un mondo che si alimenta del vuoto. È come se tutta la passionalità fosse stimolata dal desiderio di riempire il vuoto che resta a causa della perdita del senso dell’essere, voglio dire per la perdita dell’esperienza diretta dell’essere. Sebbene possiamo dire astrattamente “sono”, filosoficamente non abbiamo l’esperienza dell’ “lo sono”, che si può dire sia ciò che appare come “il più divino” nell’essere umano. Solo la parte divina nell’essere umano può dire “sono quello che sono”. L’esperienza dell’essere è qualcosa che, paradossalmente, più la persona cerca, meno riesce a raggiungere e viceversa. L’esperienza dell’Io è un’esperienza molto fragile, quasi illusoria, è qualcosa che si vede con la coda dell’occhio e appena la si guarda di fronte, scompare. Quanto più si cerca l’lo, tanto meno lo si trova. Dunque mi sembra che il lavoro sulla carenza in questo senso, non la carenza amorosa che studia la psicologia dinamica ma la carenza ontica, dia un’altra dimensione alla psicoterapia, una dimensione peraltro piena di speranza perché l’amore di vent’anni fa non si può ritrovare, però l’essere è sempre presente, solo che dobbiamo sviluppare la capacità di rimuovere il velo che ci separa da esso. Una delle mie realizzazioni teoriche è stata la formulazione di una teoria della nevrosi e degli aspetti caratterologici che accompagnano gli stili nevrotici. Da questo punto di vista tutte le nevrosi sono una ricerca disperata dell’essere che “riposa” in una perdita dell’essere, e la perdita dell’essere si sostiene con la stessa ricerca dell’essere là dove non c’è. Ho lavorato sistematicamente a partire dal carattere perché penso che la base della nevrosi sia caratterologica, non credo, come qualcuno ha proposto, che la nevrosi del carattere sia una complicazione della nevrosi, ma piuttosto che la nevrosi sintomatica sia una complicazione della nevrosi caratterologica di base.
Hai fatto cenno poco fa al deficit dell’essere definendolo come una carenza ontica, mi pare che in questo discorso rientri la tua ricerca nel Buddhismo e l’approfondimento dei suoi vari livelli.
È vero, però mi piacerebbe dire al riguardo che esistono due “vocabolari” nel mondo delle tradizioni spirituali. L’attitudine del Buddhismo è trovare alla radice della vita un “vuoto fondamentale”. Con questo si vuol dire qualcosa di trascendente, qualcosa che non si può definire concettualmente e che fuoriesce da tutte le categorie di pensiero. Questo modo di vedere esiste anche in altre tradizioni come ad esempio l’Induismo secondo il quale, al centro della persona, si trova un “self” un se stesso. Una delle mie tesi, durante molti anni dalla pubblicazione di “The one quest”, è stata che questa polemica religiosa, se la verità si trovi nel “self” o nel “non self’, rifletta anche due stili di simboleggiare, il che non comporta una differenza fondamentale rispetto alle implicazioni pratiche. Tanto il meditare sul vuoto quanto il meditare sul “self” indirizzano la mente verso il centro di se stessa o il meditare su Dio. La differenza non è così radicale come sembrerebbe. In tutti i casi è certo che nel buddhismo si abitua la persona a svuotarsi di se stessa, si abitua la persona a stare senza punti di riferimento, esiste una vera educazione a lasciar andare l’attaccamento a forme di comportamento o idee. Lo stesso si può dire del taoismo, il Tao è, nella sua essenza, vuoto e questa concezione di vuoto ispira il coltivare la fluidità.
Cosa puoi dire di più su questa idea di vuoto che spesso è difficile comprendere da chi non è dentro l’esperienza: in generale si teme che il vuoto sia un non esistere.
Nel Buddhismo si parla in due sensi di vuoto. La vacuità, la mancanza di significato del Samsara, la insostanzialità del Samsara, che è un’idea che si sviluppa quanto più la persona è risvegliata spiritualmente. Come diceva il sufi Bayasid Bistami, anche se stiamo parlando di Buddhismo, “quanto più vivo, meno mi interessa il mondo, più mi interessa Dio”. Si può dire che quando una persona matura spiritualmente gli interessano sempre meno le cose del mondo, cominciano cioè a sembrare superflue come i giocattoli che un bambino lascia da parte, i piaceri sensoriali, i piaceri della vanità, i piaceri legati al potere, di fronte ad una soddisfazione più profonda che non può dare nessuna cosa al mondo. Questa può essere una nozione di vuoto: è come svuotare il mondo di significato. Un altro senso è che il supremo, l’assoluto, quello che cerchiamo ben oltre il mondo, ha una natura di vuoto. In questo senso è qualcosa di cui non si può dire niente. Tutto quello che possiamo dire di qualsiasi cosa si trova dentro una polarità: di tutto si può dire il contrario. Allora il vuoto ha un senso di ineffabilità che non è un niente ma che non ha caratteristiche denominabili, specifiche. Io credo che questi due tipi di vuoto non siano diversi come sembrano perché, se ci si permette di stare nell’indefinito, nel vuoto che lascia il mondo e le sue soddisfazioni, si crea un’apertura verso ciò che non è sullo stesso livello del concettuale, o dell’emozionale, o del volitivo. Ci si può chiedere cosa sia il transpersonale se non è corpo, non è emozione, non è intelletto. Si può dire che è niente, però non un niente negativo, bensì un niente in cui è radicato l’essere. Parlando in forma approssimativa si può dire che la visione risvegliata della vita è una visione nella quale tutte le cose che quotidianamente si dice “esistano”, sono come ombre, sono derivate, sono riflessi dell’essere, sono come la caverna di Platone, un mondo che ha qualcosa della natura del sonno rispetto all’essere assoluto; ma in questo senso si può dire che solo il non-essere, è. Solo quello che dal nostro punto di vista ordinario sembra non essere, è quello nel quale può trovarsi l’esperienza dell’essere. È un poco come dire che solo consegnandosi alla morte si può trovare la vera vita, mentre più ci aggrappiamo alla vita più ci distruggiamo, più ci inibiamo nel flusso della vita.
Tu ti stai occupando di più tradizioni spirituali, non solo del buddhismo ma anche del Cristianesimo, del Sufismo, dell’Induismo, dello Sciamanismo sudamericano. Hai trovato un punto di connessione, un punto comune a tutte queste tradizioni?
Ho avuto la fortuna di avere maestri di diverse tradizioni, ho avuto provvidenzialmente l’opportunità di conoscere grandi rappresentanti dallo Sciamanismo fino al Taoismo e nel mio primo libro, “L’unica ricerca” o “The one quest” mi sono proposto di rispondere a questa domanda però non dal punto di vista che potremmo chiamare teologico, o filosofico, o ideologico. Sebbene si possano trovare alcune cose in comune a questo livello, non se ne trovano tante come sul piano dell’esperienza. Io credo che il punto comune sia l’esperienza della trasformazione, che è conosciuta in tutte le culture. Nello Sciamanismo viene concepita come un’esperienza di morte e rinascita, così come presso gli antichi egiziani, come nel Cristianesimo. Nel Buddhismo si propone come un’esperienza di “annichilimento” che accompagna l’arrivo della saggezza, la conoscenza trascendentale. Nell’Islam vengono usati i termini astratti di “fanà” e “baqà”, entrambi intesi come qualcosa che arriva dopo la scoperta del proprio nulla, la scoperta che attraverso di noi vive solo l’essere universale. Io credo che la conoscenza del divino sia presente in tutte le tradizioni ed è secondario se la si chiama “divino” oppure no. Lao Tze per esempio dice che il Tao è la “nonna di Dio”. Invece di essere chiamato Dio, Il Tao è come un principio più arcaico che non si personalizza. Si può dire che Dio è un antropomorfismo, il che è perfettamente permesso, anche se, per una mente filosofica, può essere meno soddisfacente. Addirittura nel Cristianesimo ci sono stati teologi come Dionisio Aeropagita, che insistono sul “Deus Absconditus” e sull’oscurità del divino, sullo sconosciuto dal punto di vista intellettuale, che si trova più in là dell’idea di Dio. Ad ogni modo, che il divino lo si chiami Tao, lo si chiami Dio o lo si consideri come la natura della mente, è qualcosa di presente nella vita dei ricercatori di tutte le culture e se si incontrassero non ci sarebbe il limite delle parole per riconoscersi mutuamente. Quelli che si sono risvegliati, nelle diverse vie, scoprono che la coscienza è una e si incontrano in una risonanza che non ha bisogno di appoggiarsi sulla comparazione di teorie. Anche a livello pratico e tecnico c’è una grande somiglianza tra le vie, per esempio cose concrete come l’uso della respirazione per entrare in contatto con una coscienza più sottile, si trovano tanto nella tradizione Buddhista giapponese quanto nella tradizione Sufi o nelle terapie corporali moderne. Includerei anche le vie di crescita occidentali, sebbene non abbiano l’antichità né l’autorità cosi provata attraverso i secoli delle vie orientali, si possono però vedere dei punti di contatto, punti di somiglianza molto grandi. ln “The one quest” c’è un chiarimento della natura del processo, io dico che uno degli aspetti è il risvegliarsi. Tutte le vie hanno a che vedere con il passaggio dall’incoscienza alla coscienza, si tratti della psicologia freudiana, della via del risvegliarsi del Buddismo o della via del risveglio del Sufismo. Si tratta dello sviluppo della coscienza stessa. Tutte le vie riconoscono anche il bisogno di un cambio di identità, dal piccolo lo al grande lo, dall’lo fittizio, dalla piccola mente con cui ci identifichiamo quotidianamente, a quella che si potrebbe chiamare in alternativa la “grande mente” o il self o come lo si voglia chiamare. È un passaggio molto conosciuto, si tratti di Yoga o di Psicoterapia di Taoismo.
In quest’ottica si potrebbe considerare la psicoterapia come un livello di una ricerca più ampia che sfocia nello spirituale?
Io penso che la psicoterapia è uno Yoga delle relazioni, uno Yoga relazionale, così come esiste il Karma-Yoga nelle vie indù tradizionali, uno Yoga dell’azione concreta, cioè dell’azione corretta. La psicoterapia è come uno Yoga per la revisione delle relazioni umane, non attraverso il dovere o il modello di azioni derivanti da norme stabilite, ma piuttosto attraverso la revisione delle motivazioni. Si tratta però di una correzione, di un affinamento delle relazioni umane che hanno molto in comune con le vie dell’azione, è una via d’azione attraverso l’insight psicologico, attraverso il guardare dentro la sottigliezza del mondo interiore. È un modo specificamente moderno, sebbene sia esistito tradizionalmente nel contesto delle relazioni maestro-discepolo. La relazione di un Rabbino con un allievo, la relazione di un Guru tibetano con un allievo, sono estremamente sofisticate dal punto di vista psicologico, non hanno meno senso e meno ricchezza di quello che ha il contatto terapeutico, perché si tratta spesso di persone addirittura veggenti e molto creative nel loro modo di influire o di far vedere qualcosa. Ma la specialità del lavoro relazionale, la specialità di aiutare in maniera più scientificamente delineata, è un contributo nettamente occidentale. Credo che sia un apporto importante alle vie tradizionali, un apporto che prende in considerazione l’aspetto espressivo, non solo comunicativo, attraverso le parole, ma anche mimico, come lo psicodramma per esempio. È un mezzo per conoscere meglio il mondo delle emozioni ma se si limitasse a questo potrebbe essere insufficiente, nel contesto però di una concezione più ampia è molto valido.
Cosa pensi del contributo cognitivo che porta la psicologia ?
Credo che c’è un gran futuro nella terapia cognitiva applicata al carattere, si sta arrivando ad un punto molto centrale che si incontra con il lavoro che si fa nella psicologia dell’Enneagramma.
Cosa pensi del discorso di Wilber a proposito dei livelli di conoscenza transpersonale?
L’Associazione di Psicologia Transpersonale ha fatto di Wilber il suo eroe, a volte si dice che sia il William James dei tempi moderni e mi sembra che sia un uomo di molto talento che però è stato sopravvalutato nel dargli un ruolo così importante. Ha richiamato molto l’attenzione in parte perché è una persona erudita che comprende Gebser e ha letto Piaget, Margaret Mahler e altri pensatori sul tema dello sviluppo umano. Però egli ha suscitato molta impressione nei transpersonalisti americani perché questi sono poco eruditi ed è eccezionale avere un transpersonalista che legga libri e che comprenda le cose più scientifiche. Wilber ha preso le fasi dello sviluppo di psicologi classici e ha aggiunto fasi tradizionali dello sviluppo spirituale, come in una scala. Questo è più o meno ovvio farlo, però mi sembra che ci sia una limitazione nella forma in cui ha presentato le cose, oltre alla quantità di errori che sono gli errori di una persona che ha conosciuto le tradizioni attraverso studio accademico e reale interesse, ma poco come esperienza vissuta. L’errore fondamentale mi sembra che sia la presentazione dello sviluppo come una scalinata diretta verso uno stato supremo invece di riconoscere il processo ciclico di ascesa e caduta, la cosiddetta notte oscura dell’anima.
Vuoi parlarne più dettagliatamente?
Ho appena finito un libro il cui primo capitolo si chiama “Il viaggio dell’eroe come teologia mistica” e la proposta è che il modello mitico, la struttura degli argomenti di molti miti e fiabe, è l’eco di un’esperienza interiore riconosciuta in tutti i tempi. Però in questo libro richiamo l’attenzione sulla visione più conosciuta, la schematizzazione del viaggio dell’eroe che viene presentata da Joseph Campbel in tre fasi: un andare, avere un’avventura in un mondo lontano e un ritornare. Mi sembra che se facciamo un’analisi più sottile delle fiabe e dei miti troviamo che nella storia dell’eroe ci sono due tipi di vittoria: una prima vittoria che è transitoria e seguita da un tradimento, da una perdita, da un viaggio all’inferno, da qualcosa di terribile e dopo, alla fine, una vittoria definitiva, c’è quindi un’ascesa, una caduta e poi di nuovo un’ascesa. Questo corrisponde esattamente alla teologia mistica cristiana dove si parla della via purgativa, il viaggio dello sforzo che culmina con la via illuminata, il periodo in cui una persona si sente piena di grazia, vicina a Dio, con accesso ad esperienze spirituali, che però ha la caratteristica di essere un’esperienza che non dura, dura cioè per un periodo limitato di tempo ed è seguita da quello che San Giovanni della Croce chiamò “la notte oscura dell’anima”, un periodo di maturazione, di morte interiore e, contemporaneamente, di gestazione di una nuova vita. Ciò che sembrava essere la nascita di un essere spirituale si trasforma nello sviluppo di un’agonia interiore e l’esempio più conosciuto di tutto questo, al di là di tutti i miti, è la storia di Cristo, che oggigiorno si ricomincia a capire come una storia del Cristo interiore, dopo molto tempo di dominio letterale. Nell’età media si sapeva molto bene qual era il senso del Calvario, al di là del letterale, e la prova di questo era un detto: “Pochi arrivano a Betlemme e ancor meno sono quelli che conoscono il Calvario”; cioè la nascita del Cristo interiore, per rara che sia, è più comune dell’esperienza della morte del Cristo interiore, cioè la perdita della spiritualità che è la porta per accedere allo stato di completezza. La “Vita Nova” di Dante rappresenta una nascita spirituale. È chiaramente un’opera simbolica su una nuova vita; poi muore Beatrice e dalla morte dell’amore scaturisce una nuova vita che porta Dante fino ad incontrarla nell’al di là. Dunque la “Divina Commedia” non è il racconto del viaggio interiore per intero, bensì la seconda parte. La “Divina Commedia” inizia con “la notte scura dell’anima”, con la discesa all’Inferno e il passaggio per il Purgatorio per ritrovare il Paradiso, che è già stato conosciuto transitoriamente e un po’ meno profondamente all’inizio della sua vita.
Pensi che il ciclo dell’ascesa e la caduta dell’anima si ripeta più volte nel corso di una vita umana?
Sostanzialmente mi sembra che per quanti cicli ci siano nella vita ordinaria e che per quanto possano esserci addirittura oscillazioni cicliche dopo la realizzazione suprema, essenzialmente sono cicli di un altro ordine. La configurazione del viaggio non è molto complessa, non consiste di cicli indefiniti. C’è un solo monte Sinai nella vita di un uomo, un’iniziazione vera della via e, poi, la seconda nascita che nel Cristianesimo si preferisce chiamare Resurrezione, una nascita più radicale che è la finalità della via ed è, piuttosto che la morte dell’uomo vecchio, la morte dell’ego; non solo un nuovo inizio, bensì il fine che rappresentò l’Esodo con la morte di Mosè alle porte della Terra Promessa. Arrivati a questa condizione ci possono essere cicli, però questi sono contemplati in uno stato di comunione universale. All’inizio del cammino l’uomo è soggetto alla grazia, c’è un’alternanza, c’è un elemento di azzardo, alla fine del cammino la persona ha guadagnato il suo diritto di entrare in cielo e per la sua stessa natura e nonostante ci sia un elemento di fluttuazione della vita, nessuno potrà disfare questa nascita. L’uomo non ritorna al ventre della madre un’altra volta. Ciò non significa che l’evoluzione non continui. Io credo che lo sviluppo spirituale possa continuare, però non mi sembra chiaro dai documenti che esistono e nemmeno è qualcosa di cui io possa parlare personalmente perché appena comincio a sentire l’odore della Terra Promessa. Ci sono opere letterarie che suggeriscono cicli, per esempio nella Bibbia dopo la Terra Promessa, dopo che sono crollate le mura di Gerico, con il libro di Giosuè c’è di nuovo un periodo nero, ci sono guerre, c’è disunione e poi c’è un nuovo periodo di gloria con la unificazione del regno fatta dal re David e con la costruzione del tempio di Salomone che è di nuovo il pinnacolo finale della Storia Sacra di cui è stato specialista questo popolo, in particolare con la sua grande tradizione nell’usare il materiale delle leggende per esprimere esperienze interiori. Io credo però che si tratti piuttosto dello sviluppo come di un motivo musicale, di una configurazione interna, non perché nella vita umana si ripeta indefinitamente bensì perché, quale che sia il libro della Bibbia che uno legge, si può vedere la storia intera ripetuta attraverso il materiale di un’altra storia. È come un albero che si ripete nel ramo e il ramo che si ripete nella foglia. Questi grandi libri sono come tessere, come le cattedrali gotiche che possiedono una struttura globale e si possono ammirare anche microscopicamente e vedere strutture particolari. Mi sembra piuttosto che si tratti di un artificio letterario, di un ricorso letterario per riflettere il tutto in ognuna delle parti.