Il lavoro corporeo in psicoterapia della Gestalt: confronto tra modelli.

da Antonio Ferrara
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Pubblicato in: Quaderni di Gestalt, vol. XXVI 2013/1, Franco Angeli s.r.l. – Milano 2013.

 

“Differenze teoriche e metodologiche nel lavoro sul corpo in psicoterapia: parlano tre direttori di scuole”.

 

Il dialogo sul corpo in psicoterapia della Gestalt fra tre Direttori di diversi Istituti, pur nelle differenze teoriche e metodologiche, muove da uno sfondo condiviso sui fondamenti di Perls (1942; et al., 1951) e in particolare la concentrazione, l’esperienza e il qui e ora.

Per gli autori gestaltici contemporanei il corpo è l’organo di contatto privilegiato che racconta sia la storia dei propri contatti che la novità di quelli attuali.

«L’attenzione al corpo prospettata dal metodo gestaltico segna un passaggio importante per la psicoterapia in genere: dall’ottica di una profondità riferita a sedi esperienziali prettamente psichiche, all’ottica di una profondità intesa come incarnazione delle relazioni» (Spagnuolo Lobb, 2011, p. 95).

 

  1. Perls propose la tecnica della concentrazione come alternativa alle libere associazioni, manifestando in questo modo una determinazione chiara a considerare il sentire corporeo come dimensione fondamentale dell’esperienza del qui e ora del paziente. Nella tua pratica clinica, quanto questo aspetto metodologico e teorico è ancora presente? Hai sviluppato idee e metodi nuovi?

 

Antonio Ferrara

L’approccio al corpo di Perls (1942) è ancora presente nella mia clinica, pur se integrato con altri modelli. La terapia della concentrazione, il primo nome che Perls dette alla terapia della Gestalt, produce risultati diversi dalle libere associazioni. Favorisce una più partecipe responsabilità del paziente e facilita il contatto con le sensazioni che il corpo rimanda. Il corpo parla (una zona sintomatica, dolente, o contratta) e la coscienza fluisce. Il terapeuta può invitare il paziente a identificarsi con quella zona e ad esprimersi, con suoni, gesti o parole, a diventare il torace, ad esempio, e,  attraverso un continuum, comunicare quanto sperimenta: “Mi chiudo, sono contratto, brucio…” “E cosa senti?” “Paura”. Il respiro diventa affannoso, il corpo trema. Continuando ad esplorare emergono emozioni, consapevolezze e significati, un insieme di esperienze che il corpo trattiene e nasconde in sé.

 

Mariano Pizzimenti

Un tempo il cielo era dipinto d’oro fino a quando Giotto, guardandolo esclamò: “ma è blu”. Perls, come Giotto, ponendo il corpo come fondamentale in terapia, ha fatto qualcosa di geniale partendo dall’ovvio. Più che “innovare” mi sembra di “ampliare” la tecnica di concentrazione. Per esempio chiedo alla persona di fare movimenti per entrare contatto con la funzionalità retroflessa nella parte del corpo su cui ci stiamo concentrando. Utilizzo diverse respirazioni perché il respiro influenza ed è influenzato dalle varie forme che assume l’aggressività. Ultimamente concentro la mia attenzione sull’aggressività, fondamentale perché quando parliamo di contatto organismo/ambiente parliamo di movimenti. Sto sviluppando interventi per esplorare le forme che l’aggressività assume e le forme corporee con cui queste si esprimono.

 

Stefano Crispino

Certamente questo aspetto metodologico è ancora presente nel mio modo di lavorare, ma non come alternativa a quello verbale associativo. È comprensibile che Perls, all’epoca in cui ha realizzato la sua rivoluzione metodologica, si orientasse verso un atteggiamento opposto a quello esclusivamente verbale associativo tipico dell’intervento psicoanalitico che, con l’uso del lettino, addirittura sosteneva la necessità di tenere sotto controllo e marginalizzare la variabile corporea nella relazione terapeutica. Oggi, una visione più emancipata chiede una riflessione e un’integrazione tra corpo e parola, non si può rinunciare a quest’ultima così come alle associazioni

come metodo. Sappiamo che la Gestalt tiene in gran considerazione la narrazione, intesa come espressione fenomenologica dell’esperienza soggettiva, lo strumento verbale associativo è anche la strada maestra che conduce alla storia e alla narrazione degli individui intese come processo individuativo ed esistenziale. Nel rapporto con il paziente, mentre utilizzo le parole e le associazioni osservo il corpo e vedo come i due processi si integrano, in quanto le parole possono essere la rappresentazione simbolica dell’esperienza corporea.

 

  1. Nella tua pratica clinica e didattica, a quali teorie ti riferisci per comprendere e lavorare sull’esperienza corporea?

 

Antonio Ferrara

Come prima esperienza mi riferisco alla vegetoterapia reichiana. Reich (1994) si focalizzò sulle resistenze che si manifestano nel corpo e individuò zone specifiche in cui viene trattenuta l’energia biologica dando vita alla corazza caratteriale, che definì una biografia cristallizzata. Ideò tecniche per rompere le resistenze annidate nelle fasce muscolari e liberare l’eccitazione emozionale. E poi alle teorie di Perls, che fu più interessato a sciogliere le rigidità del corpo, quello che chiama l’io pietrificato o il carattere. La resistenza è naturale, affermò, è frutto di un atto creativo e non va eliminata ma accolta. È una parte del sé e come tale va integrata.

 

Stefano Crispino

Faccio riferimento a molte teorie e tecniche che si sono evolute nell’ambito della psicologia umanistica: gestalt, tecniche a mediazione corporea, tecniche induttive e strategiche come la programmazione neurolinguistica, psicodramma e drammatizzazione, l’approccio sistemico relazionale ecc.

Nel lavoro individuale uso difficilmente tecniche come la sedia calda, in quanto non mi appassiona molto, preferisco usare me e il mio corpo per comunicare, entrare in contatto, perché sento e so che funziona di più. Nel lavoro di gruppo, con le coppie o con le famiglie utilizzo spesso la tecnica psicodrammatica per la capacità che ha di muovere il corpo nello spazio, di misurare le distanze e le vicinanze, di definire i confini e le modalità di relazione. Oppure utilizzo, nel versante più creativo e dinamico la tecnica della drammatizzazione, o ancora la scultura vivente, per capire in che modo un paziente rappresenta anche sul piano corporeo l’esperienza nel qui ed ora, in quanto nelle modalità di funzionamento del corpo è inscritta la storia di un essere umano che si fa narrazione.

 

Mariano Pizzimenti

Quando decido di lavorare sulla gestalt paziente/terapeuta lavoro sempre sull’esperienza corporea. La teoria della Gestalt sostiene sufficientemente a riguardo. Per me non è significativo fare riferimento ad una teoria o ad un’altra. Il punto, come gestaltista è comprendere l’anatomia del corpo e del movimento, ho bisogno di studiare i meccanismi della respirazione, il funzionamento dei diaframmi, sviluppare l’attenzione all’estetica della forma.

 

  1. Tu personalmente cosa guardi nel corpo del paziente e quale aspetto esperienziale ti interessa esplorare?

 

Stefano Crispino

Del corpo del paziente osservo in particolare il respiro, la postura, la mimica facciale, la tensione dei muscoli, come farebbe un reichiano o un bioenergetista, il corpo della persona con cui sono in relazione mi parla, basta osservarlo. Quel corpo mi dice “guarda, sento la mascella irrigidita, il respiro superficiale, le spalle più o meno rigide o curve” ecc. Se lavoro con una coppia osservo le reciproche reazioni al funzionamento corporeo, in quanto le emozioni sono connesse con questa organizzazione. Se lavoro individualmente osservo e cerco di essere consapevole soprattutto delle mie reazioni corporee.

 

Antonio Ferrara

Guardo l’ovvio. Colgo un segnale che mi arriva dal corpo del paziente e la mia attenzione si dirige lì, è un atto spontaneo, solo in seguito subentra la volontà di iniziare un’esplorazione. Mi incuriosisce sapere cosa quello stimolo stia comunicando e il mio interesse induce reazioni nel paziente. Si attiva la relazione. Il segnale iniziale può essere una contrazione, un tic e la mia risposta una domanda: “Che fai? Cosa esprimi? Che senti?”. Durante un workshop, a una donna dal carattere compiacente, con il sorriso sempre stampato in volto, detti il compito di tenere un cerotto sulla bocca per tutta la giornata. Dopo circa un’ora, il sorriso dette spazio a un gran pianto, accompagnato da rabbia e dolore profondo. L’energia impegnata nel mantenere il sorriso meccanico e ripetitivo, frutto di formazione reattiva, tornata alle radici, ha dato spazio all’emozione naturale un tempo repressa.

 

Mariano Pizzimenti

La prima cosa che osservo è l’espressione del viso e la postura del corpo, stando attento a cosa mi comunicano. Poi la respirazione, fondamentale perché cambia col contatto. Ogni cambiamento di ritmo respiratorio ci segnala che la persona ha modificato il processo di contatto. Il lavoro sulla respirazione è un processo di avvicinamento della funzione-io alla funzione-es e alla funzione-personalità sul confine di contatto, perché aiuta me e il paziente ad entrare in contatto con cambiamenti avvenuti a livello della funzione-es senza che la funzione-io fosse chiamata in causa. L’attenzione ai cambiamenti respiratori di entrambi ci aiutano a consapevolizzare l’esperienza dell’incontro. C’è poi una parte di lavoro educativo basato sull’aiutare la persona a scoprire come può sostenersi con diverse respirazioni. Per esempio, se sostengo una persona a sedersi in modo da sentire che si sta appoggiando sull’ano, sul perineo e sui genitali e poi la invito a contrarre quest’area (più i muscoli addominali) quando espira e poi rilassarli ed espanderli inspirando profondamente, facilmente la persona sperimenterà un senso di maggior forza, mentre la schiena si raddrizzerà come conseguenza dell’espansione dell’addome e non dell’irrigidimento dei muscoli della colonna e/o delle spalle. Questo non è un insegnamento di tipo idealistico, cioè non mira a dare alla persona un modello da seguire, ma a comprendere come continuamente, senza rendersene conto aggredisca il proprio ambiente e come questa aggressività sia essenzialmente corporea.

 

  1. La psicoterapia della Gestalt ha privilegiato l’attenzione al qui e ora, in opposizione all’attenzione al passato proprio della psicoanalisi, per stare con la freschezza del contatto attuale. Questo ha determinato l’uso di tecniche che focalizzano la consapevolezza corporea (per es., “cosa senti?”; “dove senti nel corpo questa emozione?”, “stai con ciò che senti e respira”, “concentrati in ciò che senti e vedi dove ti porta”). Cosa pensi oggi di questa focalizzazione nel presente? Senti l’esigenza di un approccio diacronico/evolutivo per comprendere la struttura dell’esperienza corporea del paziente? Secondo te cosa c’è scritto nel corpo? Quali aspetti diacronici ed evolutivi ci rivela il corpo?

 

Antonio Ferrara

Secondo Reich (1994) il corpo esprime la biografia di una persona ed E. Berne (1979) parla di un copione corporeo, frutto di empasse molto precoci, i protocolli di copione, che incominciano a costituirsi già nel ventre materno. Il Training Autogeno dà attenzione al processo, a ciò che avviene nel qui ed ora, ma anche al contenuto, la struttura sulla quale si organizza “un piano di vita”, ovvero il Copione. Per lavorarci a volte utilizzo il modello ridecisionale di B. e M. Goulding (1983). A partire da un sintomo o da un problema attuale guido il paziente in una regressione a scene della sua infanzia, per poter recuperare le matrici della sofferenza di oggi. Gliele faccio rivivere diventa papà, mamma… lui stesso. Emergono emozioni, pensieri, convinzioni di copione, che ancora sostengono vecchie scelte di vita, e hanno conseguenze anche nel corpo. Ho dato attenzione alla struttura e questo non ha tolto freschezza alla terapia, anzi! I percorsi spirituali ai quali mi ispiro, seguendo la linea di C. Naranjo (1980) e l’insegnamento del mio principale maestro C. Namkhai Norbu (1986), mi hanno insegnato che l’esistenza si svolge in un eterno presente, ma la mente relativa funziona anche con le idee di passato e di futuro. Per superare l’ignoranza e riscoprire la nostra vera natura occorrono sia pratiche di presenza e consapevolezza che lavoro sulle visioni limitate della vita quotidiana, e queste comprendono i vissuti dei sensi, del corpo, e la nostra storia. L’ovvio che oggi osserviamo va integrato con le motivazioni che ancora gli danno vita, e che spesso si basano su pensieri irrazionali, idee pazze che vengono dalla prima infanzia.

 

Mariano Pizzimenti

La focalizzazione nel presente è fondamentale perché, dal momento che la Psicoterapia della Gestalt si concentra sul processo, più che sul contenuto, il qui e ora è inevitabilmente processuale. Non solo, ma quando ci concentriamo sul corpo vissuto nell’adesso della situazione terapeutica, comprendiamo anche l’ambiente. Il “cosa senti” è sempre un “cosa senti adesso”, qui con me. Se ci concentriamo sull’intenzionalità di contatto e quindi sui movimenti aggressivi espressi e trattenuti, l’aspetto evolutivo è chiaro ed inevitabile. Noi riconosciamo la dignità della persona-paziente. Ci concentriamo sulle sue azioni, sui movimenti aggressivi e questi sono scritti nel corpo. Il corpo ci rivela come la persona vive l’incontro tra me e l’ambiente.

 

Stefano Crispino

Il corpo è un potente strumento di comunicazione analogica, oltre che essere un’esperienza dell’individuo. Il corpo vissuto informa ciascuno di noi dall’interno attraverso le sensazioni e sono queste ultime che, quando si organizzano in percezioni, formando una “figura”, si trasformano in “intenzione”. Questa intenzione può essere espressa a sua volta sia con una comunicazione verbale che non verbale e, in quest’ultimo caso, con un micro-comportamento o con un macro-comportamento. Sono, soprattutto, i piccoli segnali che influenzano la relazione e il ricevente della comunicazione a livello non consapevole ed è questo che la rende potente, al di là della possibilità di attribuirgli un senso. C’è una massa di dati sensoriali che nella maggior parte dei casi rimangono a un livello d’inconsapevolezza, ma ha effetti sulla relazione e sulla comunicazione stessa. Tuttavia la comunicazione corporea è anche una modalità ambigua di comunicare, cioè non dice molto su quello che c’è per esempio sullo sfondo di quella piccola o macro comunicazione non verbale. Ad esempio, nell’espressione corporea della mia contrarietà o della mia aggressività nei confronti di qualcuno, c’è una complessità narrativa riferita alla totalità della mia vita che non può venir esaustivamente comunicata e compresa con quella modalità analogica. E la parola, dunque diventa essenziale, la verbalizzazione integra la modalità comunicazionale del corpo, dando senso all’espressione dei blocchi energetici, alle contrazioni muscolari, ai meccanismi difensivi e sostenendo il processo che si evolve a livello corporeo.

 

  1. Tra i contributi più significativi, a nostro parere, per ciò che riguarda lo sviluppo della dimensione relazionale, o meglio del corpo in relazione, vi sono: James Kepner, che nel suo libro Body Process (1993), pone l’accento sulla relazionalità dei blocchi corporei, operando un passaggio dalla prospettiva intrapsichica reichiana, ad una prospettiva gestaltica di contatto; Ruella Frank (2001) che propone un modello somato-evolutivo gestaltico per comprendere il vissuto corporeo del paziente adulto e della coppia madre/bambino, offrendo una prospettiva relazionale sugli schemi relazionali di movimento. Gli studi della Frank costituiscono un parallelo gestaltico con la teoria di Stern (2004). Come ti collochi in questa evoluzione del pensiero gestaltico?

 

Antonio Ferrara

Sono dei contributi stimolanti, ma preferisco soffermarmi su quello che definisco un continuo di consapevolezza in movimento. Il lavoro viene fatto in gruppo e le persone si muovono seguendo stimoli spontanei. L’obiettivo è quello di sperimentare momento per momento il libero fluire della coscienza e le interruzioni che si manifestano per effetto di blocchi e resistenze, a livello della mente, delle emozioni e del corpo. In maniera diversa da quella reichiana si aprono le difese, e i conflitti nascosti diventano consapevoli. Il processo si attiva grazie all’accettazione e al lasciarsi andare, impliciti nella spontaneità del movimento, non rompiamo, ma integriamo le resistenze.

 

Mariano Pizzimenti

Se riconosciamo che la struttura corporea è funzionale al contatto con l’ambiente, emerge in primo piano l’importanza delle modalità aggressive, cioè dei differenti modi (corporei) con cui andiamo verso l’ambiente per ottenere ciò che vogliamo. Alcune di queste forme di aggressività sono già state esplorate e necessitano solo di approfondimenti sul piano di funzioni relazionali adulte, come l’aggressività orale, dentale e anale. Altre necessitano di sviluppi più originali come l’aggressività sessuale e respiratoria. Quest’ultima per esempio non è mai nominata, eppure è il primo movimento aggressivo del neonato verso il mondo e del mondo verso il neonato e resta come prerequisito per qualsiasi altra forma di aggressività. Nel senso che qualsiasi movimento verso l’ambiente parte da un cambiamento respiratorio.

 

  1. Grazie, per finire un’ultima domanda. Come utilizzi nella tua pratica clinica la tua esperienza corporea? Puoi fare un esempio clinico concreto? Utilizzi un modo di lavorare diverso quando sei nel gruppo e lavori nel setting individuale?

Mariano Pizzimenti

Penso all’ultima seduta con Guido, 56 anni con cui lavoro da un anno. Tra noi c’è una buona relazione. Mi parla di come si senta isolato nel posto di lavoro. È seduto semidisteso, gambe allungate e accavallate, la testa molto piegata in avanti e le braccia abbandonate sui braccioli. Voce monotona, viso inespressivo. Lo invito a fare una respirazione profonda addominale unita ad esercizi di contrazione e rilassamento sopra descritti. Li fa con buona concentrazione e dopo un paio di minuti comincia a percepire tensione alla mandibola. La schiena resta eretta senza sforzo, lo sguardo è più acceso. Gli chiedo cosa gli stia succedendo, mi parla della sua voglia di dire ai proprietari del ristorante delle difficoltà che loro creano e della paura di esplodere con rabbia. Lo invito a tornare alla sua vecchia posizione e a entrare in contatto con le compressioni a livello del diaframma della gola e del plesso solare. Mi parla del “distacco” che sente in questa posizione, che percepisce anche da quello che dice. Gli parlo del rischio che comporta il parlare restando “distaccati”, perché non siamo in grado di modulare la nostra eccitazione. Lo invito a mettere i proprietari sulla sedia e a parlare con loro passando da una posizione all’altra. Sente la differenza. La volta dopo mi racconta che ha parlato con i proprietari e lo ha fatto concentrando l’attenzione sui propri genitali, sentendosi “seduto” su di essi e riempiendosi col respiro. È riuscito a non arrabbiarsi dando però forza e sostegno alle parole. L’impatto sui proprietari è stato notevole, hanno capito quello che lui voleva dire ed hanno cominciato a modificare il loro comportamento nella direzione che lui chiedeva.

 

Antonio Ferrara

Voglio dire qualcosa sul Teatro Trasformatore, modello di gruppo da me elaborato, nel quale opero come “terapeuta-regista”. In questo tipo di esperienza l’attenzione al corpo è centrale. Nel teatro suggerisco gestualità, movimenti, posture espressioni del viso, modalità vocali e altro, che danno forma a personaggi del tutto inediti, presentati ad un pubblico costituito dagli stessi partecipanti. L’obiettivo è quello di evidenziare e far sperimentare a chi interpreta il ruolo, aspetti della personalità mai contattati, repressi o sconosciuti. Nel gruppo propriamente detto guardo all’individuo ma anche all’insieme. Lavoro su problemi personali e sulle dinamiche che intercorrono tra i vari componenti. Sollecito feedback e scambi, mi occupo delle proiezioni, dei transfert e rivolgo un’attenzione particolare a quelle forme di comunicazione che nascondono un non detto che può dar vita a giochi psicologici. Incoraggio verità e intimità nelle relazioni. Anche il rifiuto trova spazio, quando autentico e responsabile. Consapevolezza e contatto nel qui e ora favoriscono il crescere insieme dell’intero gruppo, si crea una sottile interdipendenza, fattore che promuove cambiamento anche nelle comunità e nei gruppi sociali, come da anni sperimentiamo nei programmi SAT.

 

Stefano Crispino

In genere, preferisco utilizzare e lavorare tramite le mie emozioni e la conseguente modalità di respirazione, piuttosto che sulle proiezioni del paziente, sulle sue rappresentazioni ecc. La respirazione comunica e informa a livello inconsapevole sia chi respira sia chi la osserva, se non altro per il classico fenomeno del rispecchiamento. Infatti, il terapeuta tende a rispecchiare il proprio paziente, se è in sintonia, consapevolmente o meno. Di conseguenza, se io ora respiro in un certo modo, vuol dire che dall’altra parte è successo qualcosa, quindi io funziono metaforicamente come un radar. Quindi, l’attenzione al respiro mi permette di cogliere aspetti della relazione che potrei non essere in grado di ri-conoscere; per esempio, a volte, ho delle respirazioni molto profonde che mi sorprendono e mi liberano e, quando mi succede, mi domando cosa sia cambiato. In quel momento, immagino che qualcosa sia successo tra me e il paziente senza che io me ne sia reso conto e che il livello troppo superficiale della respirazione e delle contrazioni muscolari mi stia informando di ciò, allora cerco un maggior contatto con me stesso e con l’altro. A volte, in gruppo, utilizzo il corpo e il respiro per realizzare, con un intervento di modeling, un cambiamento nel paziente. Il respiro è un linguaggio archetipico potente, materno e preverbale, capace di contenimento e rassicurazione, ad esempio nelle crisi emotivo-regressive agisco con il contatto corporeo e con la mia respirazione per tranquillizzare il paziente.

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