Pubblicato in: Atti del Convegno SIAT, Torino 1998
“L’Analisi Transazionale come modello flessibile che, nonostante le contraddizioni, riesce a trovare una propria peculiarità nell’accogliere stimoli differenti e nell’assimilarli in un linguaggio comune.”
Premessa
Oggi parlare d’identità dell’Analisi Transazionale diventa estremamente complesso considerando quanti filoni e scuole sono stati integrati nel suo corpus teorico. Tutti riconosciamo che l’AT deriva dalla Psicoanalisi e sappiamo che Berne a quella scuola si formò. Questo tuttavia non è sufficiente per attribuire all’AT un’identità psicoanalitica o neoanalitica, viste le profonde innovazioni e rivisitazioni che Berne apportò a quei concetti che dalla Psicoanalisi integrò nella sua teoria e anche considerando le differenze di metodologia, tecnica e filosofia che caratterizzarono fin dalle origini l’approccio analitico transazionale. D’altro canto anche Fedem, analista di Berne, si distanziava dall’ortodossia professando una psicoanalisi in cui dava rilievo agli aspetti fenomenologici, descrivendo l’Io come un’esperienza vissuta e dando valore alle manifestazioni osservabili, principio che divenne centrale nella concezione degli Stati dell’Io di Berne.
È proprio sull’osservazione dei piccoli segnali che partono dal paziente, sulle sue espressioni, sui movimenti impercettibili che viene focalizzata l’attenzione del terapeuta, spostandola dalla ricerca dei significati attraverso metodi interpretativi, a ciò che invece emerge ed è visibile, a fenomeni quindi che hanno una realtà verificabile. Di qui il costante invito di Berne a osservare il comportamento, prima di impegnarsi in più approfondite analisi a livello storico e fenomenologico.
Berne ebbe una precisa intenzione di allontanarsi dal modello e dalla tecnica tradizionali, come egli stesso più volte affermò, inventando un suo originale approccio che, per certi versi, si orientava verso un modello di tipo cognitivo – comportamentale, pur mantenendo uno stretto legame con la matrice psicoanalitica. Ed è proprio questo aspetto integrativo che a mio parere, ha caratterizzato fin dalle prime formulazioni berniane l’Analisi Transazionale. Se è vero che l’interpretazione è uno degli interventi terapeutici previsti da Berne, è altrettanto vero che riguardava prevalentemente la fase psicoanalitica del trattamento, mentre ebbero sempre più rilievo, nella tecnica terapeutica, gli interventi rivolti alla decontaminazione, il cui scopo fondamentale è stato quello di permettere la rapida attivazione di un Adulto funzionante. Tutto ciò si può coagulare nell’invito di Berne a occuparsi innanzi tutto di guarire il paziente attraverso il raggiungimento del controllo sociale, attitudine questa, più di scuola comportamentale che psicoanalitica.
Inoltre, la filosofia dell’AT e la sua visione dell’uomo hanno contenuti ben diversi da quelli della Psicoanalisi classica. L’humus in cui si sviluppò fu il periodo a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, tempo di forti movimenti innovatori negli Stati Uniti. La cultura hippy, i movimenti anarchici, il pacifismo, la psichiatria democratica, la contestazione dei valori tradizionali e una nuova attenzione ai fenomeni della crescita della coscienza, anche attraverso l’importazione di tradizioni spirituali provenienti dall’Oriente, influenzarono profondamente il mondo della psicoterapia, dando vita al movimento della Psicologia Umanistica. Tutto questo si respirava nell’aria e Berne visse in quell’ambiente cosi ricco di fermenti, anche se, diversamente da quanto accadeva in altre scuole, tese, insieme ai suoi primi allievi, a mantenere una coerenza teorica e metodologica.
La filosofia della contrattualità è basata sul valore dell’uomo, da cui discende la sua capacità di risposta e quindi il concetto di responsabilità, sia nella patologia che nel cambiamento. Questa concezione è ben diversa dall’idea di colpevolezza edipica, centrale nell’ortodossia freudiana. Alla visione di un uomo che paga perché colpevole, subentra quella di un uomo che “cade” per ignoranza di alternative e per limiti naturali. In quanto “responsabile” il paziente dell’analista transazionale diventa un attivo collaboratore del “tecnico”. Paziente e terapeuta lavorano faccia a faccia, ne consegue che la reciproca influenza è immediatamente visibile. Questo comporta notevoli cambiamenti nella tecnica e amplia le possibilità di intervento del terapeuta. La libera associazione non solo non è più la tecnica d’elezione, ma purtroppo scompare dal setting sostituita da modalità d’intervento focalizzate, il che da un lato abbrevia i tempi del processo terapeutico, d’altro lato impoverisce la conoscenza dei substrati più profondi della personalità e la possibilità di dare maggior spazio alla scoperta del mondo interiore.
È parte caratterizzante dell’AT, l’analisi transazionale propriamente detta, altra faccia del trattamento terapeutico che, oltre a focalizzarsi sugli aspetti intrapsichici, attraverso l’analisi strutturale degli Stati dell’Io, dà rilievo anche all’aspetto relazionale, sicché è possibile stabilire un nesso di continuità tra ciò che il paziente vive a livello intrapsichico e le conseguenze che i suoi vissuti interni comportano nel rapporto con gli altri. Per inciso, probabilmente proprio da questo tentativo di integrare i diversi aspetti della personalità in un’unica teoria degli Stati dell’Io, si alimentò la confusione tra aspetti funzionali e strutturali che Berne invece intendeva nettamente separati pur se strettamente connessi. L’uso del diagramma transazionale, separato da quello strutturale, stabilisce la differenza tra una forma di terapia comportamentale e una di tipo analitico, entrambe presenti nell’approccio AT. La divisione tra struttura e funzione permette di osservare le due facce del fenomeno nella sua complessità di contenuto e forma.
Berne aveva sicuramente intuito che il “fenomeno” non è soltanto la manifestazione osservabile, anche se a quella in prima istanza si rivolge il fenomenologo, ma è anche la struttura a cui si rivolge lo psicoanalista. Distingue nettamente tra struttura e funzione e dà importanza ad entrambi i modelli nell’approccio terapeutico, considerando la struttura e la funzione aspetti di un unico fenomeno, pur facendo una confusione terminologica quando definisce uno Stato dell Io …fenomenologicamente come un sistema coerente di sentimenti ed operativamente come un insieme di tipi di comportamento coerenti” attribuendo in questo caso solo alla struttura la definizione di fenomenologico.
Anche nella teoria dei giochi Berne sembra avere una duplice attenzione. Da un lato teorizza un modello di tipo freudiano attraverso il quale analizzare le dinamiche interne che portano all’organizzazione di giochi psicologici, evidenziando in modo particolare i vantaggi che ne ricava il paziente. D’altro lato parla di maglietta, slogans, inventa personaggi, elementi tutti che, con la loro vividezza di immagine, provocano un immediato impatto che favorisce la consapevolezza di comportamenti limitanti, con il rischio tuttavia di esagerate semplificazioni.
Con la teoria del Copione sembra che i diversi elementi possano armonizzarsi in una concezione davvero innovativa dell’adattamento umano. Nel Copione si sintetizzano modelli della relazione oggettuale, aspetti trans azionali, concezioni sull’organizzazione di mappe cognitive che determinano e condizionano il comportamento, il tutto legato dal concetto centrale di decisionalità, concetto sul quale si fonda la costruzione del Copione di vita che, basandosi su antiche decisioni, condiziona l’esistenza. Proprio a partire dall’osservazione del modo di vivere attuale, per un fenomeno di circolarità, è possibile disinnescare antichi meccanismi ed appropriarsi di nuovi modelli comportamentali.
A me sembra che si possa considerare l’Analisi Transazionale un modello flessibile che, pure con le sue contraddizioni, trova una propria peculiarità nell’accogliere stimoli differenti e nell’assimilarli in un linguaggio comune. Ritengo che sia proprio questo aspetto integrativo a costituire il tratto caratterizzante dell’AT. Berne partì dalla Psicoanalisi ma poi inventò un nuovo sistema che ha dato spazio a varie voci, ha accolto nuovi strumenti e questa è la sua identità. La nostra identità è AT e questo è autoreferente, non abbiamo bisogno di padri che avallino.
Ci sono nuove frontiere e nuovi spazi per sviluppi teorici e metodologici, la psicoterapia da tempo è uscita dallo studio dei terapeuti aprendosi a più ampi contesti. L’AT, per definizione, è una psichiatria sociale e come tale ha implicita la tendenza a trattare con i grandi gruppi, anche se fino ad oggi non ci sono ancora delle metodologie specifiche. E’ possibile però aggiornare i suoi strumenti per offrire modelli di prevenzione che possano essere appresi e, perché no, anche parzialmente gestiti dagli utenti.
Copione e Enneagramma
È proprio in un’ottica integrativa che da tempo mi occupo di ricondurre ad un’accettabile assimilazione, esperienze nate fuori dalla cultura AT ma che, a mio parere, possono arricchire aree della conoscenza psicologica che sono state meno esplorate e che pure implicitamente sono ampiamente presenti nella opera bemiana. Già in altre occasioni ho proposto lo studio dell’Enneagramma guardandolo da diverse prospettive. La proposta in questo workshop è di affiancare all’analisi del Copione un’analisi del carattere che proviene da un’antica tradizione quella appunto dell’Enneagramma.
Perché questo obiettivo? Pur avendo Berne una spiccata attitudine a spiegare i fenomeni psicologici in termini di carattere e pur avendo, nella sua opera, più volte fatto riferimento a questo concetto, l’AT di fatto non ha sviluppato un suo approccio alla diagnosi e alla clinica del carattere.
Perché utilizzare la caratterologia che viene dall’Enneagramma?
Perché l’Enneagramma propone un modello che ha diversi punti di somiglianza con quello dell AT.
Quindi, punto centrale di questo workshop è di introdurre all’apprendimento di una forma di analisi del carattere che diventi lavoro parallelo all’analisi del Copione. Voglio dire qualcosa di più sulla presenza del concetto di carattere in AT dando alcuni brevi esempi. Pensate per un momento alla descrizione che Berne fa dei giochi in “A che gioco giochiamo” , non vi sembra una galleria di caratteri? Ci sono definizioni, classificazioni, categorie, l’individuazione di tratti e caratteristiche, descrizioni di comportamenti stereotipati e ripetitivi, tutti aspetti specifici di una definizione di carattere, come vedremo. Più specificamente in “Ciao… e poi?”, sempre a proposito di giochi, Berne definisce la maglietta una difesa caratteriale e in “Principi di terapia di gruppo” dice testualmente: “sia la formazione del carattere sia la psicopatologia derivano da decisioni consapevoli prese in età precoce” stabilendo in questo modo una chiara relazione tra carattere e Copione, entrambi risultato di un processo decisionale.
Ora, prima di introdurvi più direttamente all’Enneagramma, voglio indicarvi alcuni autori di AT ai quali si può fare riferimento per avere una maggiore comprensione del materiale che vado proponendovi e delle possibilità di assimilarlo ad un comune sistema di riferimento teorico.
- Erskine – Zalcman per quanto riguarda il sistema ricatto (in particolare il primo quadrante).
- L’elaborazione dei nuclei cognitivi secondo Erskine: teoria delle credenze.
- Il concetto di Genitore autogenerato di Erskine.
- La matrice di Holtby e la concezione elaborativa del copione.
- Elaborazioni personali: Gl come mappa stereotipata e ripetitiva di esperienze.
L’Enneagramma
Ora vediamo più da vicino l’Enneagramma. È una figura con nove punti ed è simbolo di un’antica tradizione Sufi che si sviluppò in Medio Oriente. Con questo simbolo venivano spiegati importanti leggi universali per la conoscenza delle stelle, la musica, i colori…
Il primo che ne parlò in Occidente fu Gurdjleff. Quello che interessa noi oggi, è che la figura contiene anche una mappa sulla quale vengono presentate delle strutture di personalità, dei caratteri. Su ciascuno dei nove punti infatti viene individuato e descritto un tipo psicologico con specifiche caratteristiche e qualificazioni.
Ai nostri fini occorre conoscere i due diagrammi del livello inferiore. Sto dicendo implicitamente che esiste anche un livello superiore. Il primo è relativo all’Ego e riguarda gli aspetti limitanti della personalità, la patologia. Quello superiore riguarda la salute mentale, l’uscita dalla patologia. Questa distinzione ricorda quella che sempre più si accredita in AT tra aspetti positivi e negativi del Copione. Per quanto riguarda il nostro lavoro odierno, ci occuperemo del livello inferiore che comprende due mappe, una si riferisce al centro emozionale, l’altra al centro cognitivo della personalità e vengono chiamate: Enneagramma delle Passioni ed Enneagramma delle Fissazioni.
Come potete vedere nella figura che rappresenta la mappa delle passioni, sono segnati dei numeri e dei nomi che stanno ad indicare, attraverso una definizione sintetica ed evocativa, una modalità emozionale, una coloritura emozionale patologica, esasperata ed appassionata, della personalità. Per certi versi ricorda il concetto di sentimento parassita, Mentre, però, il fenomeno del sentimento parassita è caratterizzato dalla sostituzione di un sentimento sano con altro che si è stereotipato e irrigidito, perdendo la sua carica motivazionale, nel concetto di passione c’è anche una forma di esagerazione emozionale. L’emozione in sè è sana, guida i processi fondamentali del nostro esistere, mentre l’emozione esagerata, la passione, diventa patologica, un modo di porsi emozionalmente verso la vita, un particolare attaccamento emotivo che diventa perciò passionale. Contiene l’illusione del bambino, l’idea che “se lo fa di più” otterrà il risultato.
Le nove passioni sono: Ira, Orgoglio, Vanità, Invidia, Avarizia, Paura, Gola, Lussuria, Pigrizia. Le parole indicate sono evocative ed hanno un significato più esteso rispetto all’uso che se ne fa nel linguaggio comune. Ognuna di queste passioni è caratterizzata da tratti specifici e ripetitivi che si manifestano nel comportamento. Possiamo definirlo l’aspetto funzionale descrittivo del carattere.
Voglio darvi un esempio: se una persona tende a mostrarsi, ad esibire comportamenti attivi, efficienti, evidenzia attitudini organizzative, tiene alla propria immagine, si prodiga per essere vista, vuole “brillare”, questa persona sta manifestando alcuni dei tratti che caratterizzano il tipo n. 3: Vanità. È una tipologia che rientra nell’area delle personalità isteriche, secondo la psicologia degli Enneatipi, e che non ha un suo spazio specifico nella diagnostica del DSM IV, pur essendo un carattere ben definito e diffuso. Le qualificazioni dì questo carattere , come quelle di tutti gli altri, possono essere intese in termini di adattamento, considerato che secondo Berne la formazione del carattere segue gli stessi processi decisionali che portano alla formazione del copione, come precedentemente detto. Possiamo allora arricchire il concetto di Bambino Adattato indicando più numerose e specifiche caratteristiche, che vanno ben oltre le definizioni abituali di Bambino sottomesso o ribelle.
Accanto all’Enneagramma delle “passioni” c’è quello delle ‘fissazioni”. Col termine “fissazione” si intende che la persona si è organizzata intorno ad un nucleo fisso di idee e pensieri, che sono delle interpretazioni distorte e generalizzate della realtà. Questo processo è molto simile a quello della formazione delle “convinzioni” intorno a sé, agli altri e alla vita, secondo la teoria proposta da Erskine in Script Cure. A causa delle sue limitate capacità razionali, il bambino forma delle idee distorte e generalizzate, idee pazze sulle quali basa le interpretazioni successive della propria vita e del mondo. E un nucleo cognitivo che diventa “fissato”. Anche Berne in “Ciao… e poi ?” parla di idee fisse del B come contaminazioni B – A. Qui siamo nell’area della struttura e quindi nel contenuto del carattere. Nella distinzione tra nucleo cognitivo e nucleo emotivo, cioè tra fissazioni e passioni, mi pare di riscontrare un parallelismo con il “Sistema Ricatto” di Erskine – Zalcman dove, nel primo quadrante, viene rappresentata la doppia contaminazione: a livello cognitivo nelle convinzioni e a livello emozionale nelle emozioni represse.
Le nove fissazioni sono: Perfezionismo, Sovrabbondanza, Autoinganno, Sofferenza (Insoddisfazione), Isolamento (Distacco), Dubbio (Accusa), Ciarlataneria, Vendicatività, Iperadattamento (Dimenticanza di sé).
Anche sulla mappa delle “fissazioni” , per ogni tipo di carattere abbiamo delle parole che evocano sinteticamente un’intera organizzazione, riferita questa volta ad aspetti interni della personalità. Facciamo un esempio con il n. 4: Invidia – Sofferenza. È una persona che tende a soffrire, un carattere lamentoso, masochista e vorace, affetto da carenza cronica. In termini sfinterici è una personalità orale – aggressiva. Nel casi di patologia più severa si avvicina alle personalità borderline indicate nel DSM IV. Il nucleo cognitivo sul quale il n. 4 si è fissato contiene un’idea di base : “Se soffrirò abbastanza raggiungerò la felicita” . Questa idea
costituisce un irrigidimento ed una generalizzazione di esperienze del tipo: il bambino piccolo ha fame e piange. Soffre per la fame. Infine, dopo un’escalation di pianto arriva, finalmente il latte caldo che lo riempie e gli dà un senso di beatitudine. Nella ripetitività dell esperienza forma “1’idea pazza” che bisogna soffrire per poter poi essere felice. Questo sarà il nucleo cognitivo su cui costruirà il suo tipo psicologico. Il pensiero distorto si ferma a valorizzare nell’ambito di un insieme di elementi un solo dato, la sofferenza, e questa diventa una fissazione alla quale si associano sensazioni di perenne insoddisfazione con un’illusione connessa: “Un giorno mi riscatterò, vedrete chi sono io”. Esplorando la storia dell’Enneatipo 4, le relazioni oggettuali risultano caratterizzate dalla presenza di un padre “bambino” che può anche giocare con il. figlio, ma che si prende poche responsabilità rispetto alla sua educazione e alla sua crescita. È un padre spesso denigrato da una moglie sofferente che si carica controvoglia del peso della famiglia.
Tra le decisioni del bambino emergono quelle relative al rendersi presto autosufficiente, a badare a se stesso e una decisione molto profonda di prendersi cura della madre, raramente del padre, con l’illusione che se lei starà bene e sarà più felice, anche lui otterrà amore. Cosi, instaurando una simbiosi strutturale di II ordine, come definita dagli Schiff, si prende cura del genitore sofferente. Naturalmente i bisogni del bambino sono poco soddisfatti ed è proprio il bisogno carente a prendere la guida della personalità attivando comportamenti richiedenti, a volte timidi, a volte pretenziosi. Ne viene fuori una personalità caratterizzata da una confusione tra forzata autosufficienza e necessità di soddisfare i propri bisogni, non sapendo mai quando è opportuna l’una o l’altra posizione. La conseguenza è una costante incapacità di scelta, una carenza decisionale e un continuo stato di insoddisfazione che “l’invidioso” compensa attraverso processi di idealizzazione, fantasie di mondi migliori, ai quali corrisponde un forte disagio nella gestione della realtà quotidiana.
L’integrazione di fissazione e passione, e quindi degli aspetti funzionali e strutturali, delle manifestazioni esterne e dei contenuti, costituisce complessivamente il carattere che, al fondo, ha una struttura cognitivo – decisionale e si manifesta nel comportamento con attitudini e tratti ripetitivi. Da una definizione di Fenichel possiamo sintetizzare e dire che il carattere è una modalità ripetitiva e stereotipata di essere e comportarsi. Se l’adattamento è il risultato di un processo elaborativo interno, concetto che ho già trattato in precedenti convegni, e se, come dice Berne, sia il carattere che il Copione sono risultato di decisioni consapevoli prese in età precoce ne discende che quello di “Copione” e di “Carattere” sono, concettualmente e nella pratica clinica, modelli integrabili.
Integrazione Carattere – Copione
Ora voglio presentarvi un esempio sintetico di come, nella pratica clinica, sia possibile l’integrazione tra Carattere e Copione. Quello che risulta dalle mie ricerche è che persone appartenenti allo stesso tipo caratteriale, hanno Copioni del tutto simili.
Vi riferisco al aspetti relativi al tipo n. 1 : Ira – Perfezionismo.
Il tipo Ira viene cosi denominato non tanto per il fatto che sia persona rabbiosa quanto per la particolare esigenza che mette nel giudicare se stesso e gli altri. Questo tipo manifesta uno sforzo costante nel voler cambiare le cose. È’ severo, critico, chiede molto e tende a correggere il comportamento suo e degli altri, fino a diventare persecutorio. Ha l’idea di fondo che il mondo e lui stesso, così come sono, non vanno bene e quindi bisogna cambiarli. Appartengono a questa tipologia riformatori e moralisti che inseguono valori, “crociati che spaccano la testa agli infedeli per diffondere l’amore cristiano”. L’iroso pretende molto e si arrabbia se i risultati non sono adeguati. Nel suo sforzo tende a perfezionare ogni cosa e diventa ossessivo nella ricerca di soluzioni sempre migliori. È il tipo che se scopre una macchiolina fa di tutto per eliminarla: insapona, smacchia, strofina, sciacqua…. alla fine la macchia non c’è più…. e neanche il pezzo di stoffa. Ha l’idea pazza che solo se sarà perfetto potrà essere amato. Dovrà quindi dimostrare molto, l’amore va meritato, e cercherà chi gli dica “Bravo”. Ma dopo il successo non si rilassa, non se la gode, riparte per un nuovo giro. Nel DSM. IV questo Enneatipo si avvicina ad una personalità di tipo ossessivo – compulsivo.
Dall’analisi del Copione risulta:
- Un ambiente con pochi stimoli. Genitori tristi e preoccupati. Poco gioco, poca allegria e poca intimità.
- Convinzioni del tipo: sono di peso, do’ fastidio . C’è qualcosa in me che non va, mi sento inadeguato, ho dei limiti.
- Ingiunzioni: non puoi divertirti e giocare (non essere bambino), se chiedi crei preoccupazioni (non chiedere), loro hanno problemi, non mi danno attenzione (non essere intimo, non far parte), sei inadeguato (non essere te stesso, non mostrarti).
- Controcopione: devi essere bravo, obbediente, educato, serio. Sforzati di far bene e soprattutto non dare Devi controllarti. Devi fare sacrifici, non darci preoccupazioni.
- Decisioni: me la sbrigherò da solo, non chiederò aiuto, non sapranno quando sto male, sarò forte, mi sforzerò di essere bravo, non farò vedere i miei limiti (anche fisici), adotterò una maschera di sicurezza.
In definitiva la decisione illusoria, che proviene da tanta pretesa, è di essere perfetto. Solo se perfetto il bambino può non avere bisogni e limiti. Decisioni e fissazioni, quindi, hanno un’unica matrice e portano a conseguenze cognitive e comportamentali strettamente correlate.
La prevenzione
Dopo aver parlato dell’identità dell’AT, della sua flessibilità integrativa e dopo aver presentato un modello di caratterologia da utilizzare per un lavoro parallelo all’analisi del copione, voglio proporvi qualche considerazione sulla prevenzione e su ulteriori possibilità di allargare il campo di intervento dell’Analisi Transazionale.
In altre relazioni si è parlato di nuove realtà sociali, dell’incontro di gruppi e culture diverse e delle nuove problematiche emergenti, che sembra si accentueranno ulteriormente nel prossimo futuro a causa delle complesse interazioni tra forze sociali portatrici di interessi spesso distanti e conflittuali. In verità fino ad oggi nessun uomo o donna di colore è venuto a chiedere il mio intervento professionale, ne alcuno dei miei clienti mi ha sottoposto problemi conseguenti a rapporti con extracomunitari. Una volta, invece, mi è stato sottoposto in supervisione il caso di una donna africana che proponeva un problema difficile da curare: voleva recuperare il rapporto con il figlio che aveva abbandonato da piccolo e ricoverato presso un’istituzione pubblica. Il figlio, ormai cresciuto, non la riconosceva come madre e non le dava il rispetto e l’amore che lei, tornata a cercarlo dopo anni, pretendeva. L’esperienza di questo figlio e questa madre, che peraltro potrebbe verificarsi in ogni paese e in ogni cultura, mi ha sollecitato diverse considerazioni relative ai vissuti di abbandono, ma soprattutto relative a quello che non sembra il nucleo centrale di ogni patologia e forse movente di problematiche relazionali anche tra diversi gruppi etnici e sociali: la “carenza d’amore”. Il figlio che si sente deprivato prima, la madre che si sente carente dopo: si produce una catena di insoddisfazioni che si estende a dismisura dagli individui fino ai grandi gruppi. La carenza d’amore è un complesso stato emozionale che precede le influenze ambientali e i conseguenti adattamenti, una forma di vuoto ontologico, connaturato all’uomo, dal quale derivano diversi tipi di emozioni tra le quali emerge l’invidia, un’attitudine a guardare fuori da noi all’ossessiva ricerca del “dove c’è di più”. Questa attitudine, che per alcuni alimenta vissuti di deprivazione, per altri di superba autosufficienza o di forte competitività, fino a strutturare un carattere “Invidioso”, in differenti tipi di adattamento resta più sullo sfondo, come propellente, tuttavia, per un impegno che tutti ci accomuna: la ricerca d’amore.
La parola “amore” è evocativa di innumerevoli esperienze. Di fatto la carenza può essere su vani livelli e quando diciamo “bisogno d’amore” ci riferiamo genericamente a tanti e differenziati bisogni. È opinione comune che solo se c’è amore si può accudire con pienezza il piccolo nato. Ma dal punto di vista del bambino quello che conta è che vengano soddisfatti i suoi bisogni di sopravvivenza, di relazione, di riconoscimento e di scambio affettivo. Infine formuliamo che ci vuole una madre piena d’amore per soddisfare tanta necessità. Di qui il mito della madre perfetta, compensatorio dell’insaziabile fame umana.
Ho lavorato negli ultimi anni in diversi paesi stranieri e, a parte le differenza culturali rispetto alle problematiche proposte e i diversi tipi di relazione che si instaurano nel rapporto genitore-bambino, per alcuni più normative o autoritarie, per altri più distanti e fredde, a volte più soffocanti o permissive, alla fine il minimo comune denominatore è che tutti, alla base, hanno sofferto di qualche forma di carenza d’amore. Su questa carenza si organizzano i copioni familiari, personali e culturali. Ne consegue che diventa obiettivo della terapia e potente mezzo di prevenzione, quello di ridurre entro limiti tollerabili gli stati di carenza. Insegnare a dare e ricevere amore è però veramente difficile, prevede un processo di crescita lento e graduale, e una meta ideale alla quale avvicinarsi con piccoli progressi nel tempo, un percorso che passa attraverso il rispetto e la comprensione dell’altro. L’analista transazionale ha il vantaggio di un patrimonio culturale le cui radici affondano in una filosofia che pone come base fondante della formazione professionale, il riconoscimento del valore e della dignità di ogni essere umano.
Il nostro codice etico mette in primo piano la salvaguardia del più debole e vieta ogni forma di abuso e di sfruttamento del cliente. Questa cultura l’analista transazionale la trasmette praticando e diffondendo un sistema di valori che il paziente riceve come parte integrante del trattamento e può estendere ad ogni rapporto in cui, per ragioni di ruolo, sociale o familiare, è possibile uno squilibrio tra chi si pone, o viene posto, in una posizione di potere e chi, al contrario si trova, o volutamente si mette, in un ruolo subalterno. È come dire che l’attenzione va spostata dall’Io o dal Tu, secondo che si assuma una posizione egocentrica o apparentemente altruistica all’Io-Tu, posizione che conduce ad una parità relazionale e verso la comprensione delle ragioni dell’altro. Tra l’altro diminuire l’aspettativa egoistica e spostare l’attenzione anche verso il mondo esterno, permette di uscire dall’arroccamento nel sintomo e costituisce il primo importante passo verso il cambiamento.
Questi valori, che sono impliciti nel setting analitico-transazionale, nei piccoli gruppi o in terapia individuale, possono essere estesi a gruppi più grandi. Questa potrebbe essere la nuova frontiera dell’AT. Immagino il professionista del futuro capace da un lato di trattare in setting individuale o di gruppi le patologie e i temi del profondo e, dall’altro lato, di lavorare sul campo, in relazione con i grandi gruppi sociali. Questo tipo di fenomeno, già esiste in una sua forma chiara e ben articolata e voglio brevemente parlarne perché, a mio parere, offre importanti stimoli per riflessioni e realizzazioni concrete. Mi riferisco all’esperienza SAT, ideata e coordinata da Claudio Naranjo, esperienza alla quale da diversi anni partecipo con un ruolo di supervisore.
Un gruppo SAT è costituito da 120 – 130 persone. Si struttura in diversi livelli che si sviluppano in anni successivi ed ha una durata di circa 10 giorni ogni anno. Si tratta di un’esperienza formativa rivolta a professionisti e non: una formazione per la vita. La struttura, di tipo piramidale, prevede:
- un coordinatore che guida, stimola e provoca i fenomeni e che è, al tempo stesso, un punto di riferimento;
- uno staff internazionale di alta competenza in diverse aree della psicoterapia, specialisti nei diversi trattamenti corporei, emotivi e cognitivi;
- e) uno staff internazionale di supervisori;
- d) un gruppo di utenti, provenienti da vari paesi, formato da professionisti della terapia, allievi in formazione, pazienti, artisti, professionisti di vario genere, appartenenti quindi a differenti gruppi sociali e culturali.
La struttura portante del SAT è la “terapia mutua”, una modalità tecnica per esplorare se stessi in relazione con l’altro. Ogni partecipante ha un suo terapeuta di riferimento, scelto nel grande gruppo, con il quale ha sessioni quotidiane di terapia. Lui stesso sarà poi terapeuta di un’altra persona. L’assunto di base è che tutti siamo capaci di risposta terapeutica. La coppia di terapia mutua viene indirizzata di volta in volta a trattare temi specifici o semplicemente ad entrare in un processo di libera associazione. Il materiale che emerge viene portato in piccoli gruppi, guidati dai componenti lo staff di terapeuti o supervisori, i quali, con le loro competenze professionali, integreranno il lavoro fatto, trattando situazioni irrisolte e punti critici. Nel processo di terapia mutua sono importanti l’attitudine all’ascolto, alla quale i partecipanti vengono addestrati, e la responsabilità che dà il molo a chi, facendo da terapeuta, assume il compito di sostenere e aiutare l’altro. L’essere considerato affidabile e il prendersi cura sono permessi che attivano il potenziale e le capacità personali. Il “bambino bisognoso” passa in secondo piano, ora l’attenzione è rivolta a chi ci sta di fronte e alle sue necessità. D’altro lato chi chiede sostegno trova appoggio in qualcuno che ascolta con disponibilità e senza pregiudizi, può aprirsi con spontaneità, rivelare il suo mondo, svelare i “segreti”, cose che nella vita quotidiana, in famiglia, al lavoro, difficilmente gli sono consentite.
Il risultato è che diminuiscono le differenze, si attenuano le diversità e, di conseguenza, aumenta la reciproca capacità di comprensione. Riprodurre tanti piccoli setting terapeutici, il contatto globale e l’interscambio che avviene nel gruppo, favorito dagli incontri plenari, produce un potente fenomeno di “contagio”, che favorisce il cambiamento e il nascere di una diversa solidarietà di gruppo attraverso una nuova cultura che viene condivisa in alternativa ai vecchi modelli. L’obiettivo, quindi, del processo di terapia mutua, è quello di attivare il naturale potenziale di autoguarigione del gruppo, guidandolo in una direzione sana. Un altro elemento portante del SAT è l’insegnamento della Psicologia degli Enneatipi. Conoscere la propria struttura di carattere e quella degli altri, consente lavori di approfondimento in coppie e piccoli gruppi che permettono di acquisire consapevolezza sia attraverso l’osservazione quotidiana di come si manifesta il proprio carattere, sia mediante il confronto con altre persone dalle quali ricevere feed-back sul proprio comportamento.
Grazie a quelli descritti e grazie anche ad altri processi che vengono attivati, come ad esempio esperienze di espressione teatrale o la rivisitazione delle relazioni con i genitori attraverso un metodo catartico che permette di vivere il rifiuto per poi sperimentare sentimenti amorosi e di perdono, il gruppo trova il suo collante, diventa solidale, assume una propria identità. Hanno vissuto insieme esperienze importanti, hanno appreso valori che verranno diffusi nei diversi ambienti di provenienza, come piccola ma importante goccia di intervento preventivo.