Analisi Transazionale: psicologia e psicopatologia del Sé

Pubblicato in: Atti del Convegno Nazionale di Analisi Transazionale 1992, 3/4 Aprile, Roma

 

“Un’integrazione tra l’organizzazione teorica dell’Analisi Transazionale, la Protoanalisi e la Gestalt al fine di stimolare e sostenere l’espressione autentica”

 

 

Integrazioni all’Analisi Transazionale: Gestalt e Protoanalisi

Il mio intervento di oggi, per taluni aspetti, prosegue e integra la relazione che ho presentato a Venezia lo scorso anno. Pertanto, rimando ai contenuti pubblicati sugli atti per un maggiore approfondimento di quanto proponevo sulla teoria del Sé e su quelle che considero le incongruenze nel corpo teorico dell’AT tra una concezione strutturale, relativa alla teoria sugli Stati dell’Io, e una visione evolutiva più vicina alla teoria del Copione.

Molto sinteticamente ricordo che ho proposto una possibilità di integrazione attraverso una connessione tra la concezione gestaltica del Sé, elaborata da Paul Goodman (Perls et al, 1971), un Sé inteso non come istanza fisica ma piuttosto come un “essere nel mondo”, un potenziale dal quale proviene una funzione “Io” che produce strutture:  nel nostro caso gli Stati dell’Io. Procedendo nel lavoro puntualizzavo che la “confusione tra Sé e immagine di Sé e il narcisismo identificarsi con la propria immagine è causa di ogni patologia, ma anche, più profondamente, del malessere esistenziale dell’essere umano”. Quindi concludevo che “l’obiettivo della terapia non sia di abbattere l’ideale o il modello di perfezione al quale il paziente si ispira, ma che piuttosto debba essere indirizzata ad eliminare la tendenza a rifiutare e negare gli aspetti ritenuti negativi…la debolezza, la fragilità, l’essere limitato”. Precisavo inoltre “che il terrore di non esistere se l’Ego non esiste e cioè se si perdono i riferimenti e i confini, diventa patologico per effetto dell’attaccamento alla nostra struttura, nella quale ci identifichiamo” (Ferrara, 1991).

L’adattamento

Procedendo in questa direzione posso ipotizzare che il bambino crea un sistema di sicurezza, il suo specifico adattamento al quale attribuisce un valore assoluto. Si identifica pienamente in esso. Perde il contatto con il suo Sé primordiale e concepisce il proprio modo di esistere come unico. L’identità e il senso di sé diventano sinonimi ed entrambi si fondono pienamente nell’adattamento. È come dire che le strategie dfensive e compensatorie, nonché quelle rivolte alla soddisfazione dei bisogni, si personificano.

Emerge un individuo scisso dalla sua natura che teme di non esistere se il proprio adattamento viene messo in crisi. Il mondo di funzionare del BA viene confuso con l’organismo nella sua totalità. Ad una paziente che ha vestito l’abito della perenne “cacciatrice di esperienze” e continua a cercare un modello ideale di vita che naturalmente non trova, chiedo: “Qual è la tua paura, se smetti di cercare e ti fermi?” Mi risponde: “Mi fermo e mi accorgo che non c’è niente”. Esiste in quanto “cerca”. Ad un’altra che ha trovato la sua forma di adattamento e il suo racket in uno stato costante di sofferenza autoprodotta, chiedo: “Cosa succede se smetti di soffrire?” Con molta serietà mi risponde: “Smetto di esistere”.

Queste risposte, che al fondo potrebbe dare ognuno di noi, sono molto più evidenziate nei pazienti regressivi. Ne consegue che occorre maggiore rispetto per la forza della resistenza che il paziente oppone al trattamento: a volte è terrorizzato dal rischio di perdersi completamente se gli viene a mancare il modello di adattamento, che come abbiamo visto, secondo la mia ipotesi, identifica con il Sé. Un altro paziente manifesta in modo impressionante il suo terrore quando si sente particolarmente “a rischio”. Il suo volto si trasforma, i suoi occhi si riempiono di un odio profondo. Ho la sensazione che in quel momento potrebbe uccidere. C’è voluto del tempo, perché capissi che stava difendendo la sua sopravvivenza dai miei “normali” interventi terapeutici, che lui viveva come “attacchi micidiali”.  Ho anche maggiore comprensione per la rabbia narcisistica rivolta contro me e per le “fede” che mette chi sta difendendo strenuamente il suo modo di essere: “Io sono così”. Vivo meno frustrazione e impotenza quando ricordo che il paziente, per quanto assurdo possa sembrare, ha la profonda convinzione che sta lottando per la sua vita.

Qualche anno fa fui molto ferito dall’improvviso andar via di un giovane medico dopo un “bellissimo” lavoro su un sogno che avevo condotto in maniera semplice e senza sforzo e, soprattutto, senza particolari coinvolgimenti emotivi. Non venne alla seduta successiva e poi mi scrisse una lettera nella quale mi diceva che “non dovevo permettermi di provocare tanta sofferenza” in una persona che si affidava a me. Allora non capii, oggi posso comprendere meglio ciò che può aver vissuto. Le esperienze riportate, e tante altre, mi hanno spinto a valutare e a trattare in terapia gli aspetti sopra esposti e a fornire risposte adeguate che assumano la caratteristica di permessi a esistere anche fuori dal proprio Sé, e quindi dal proprio adattamento.

Il processo evolutivo ed il cambiamento

Il presupposto, naturalmente implicito in ogni trattamento terapeutico, è quello di cambiare il fissato ad una identità rigida. Se presumiamo possibile il cambiamento, ne consegue che il Sé ha una sua qualità primordiale che precede e supera gli aspetti relativi e contingenti di un Sé attualizzato.

Eric Berne (1986) lo intuì ma rinviò “ai filosofi, ai teologi, agli artisti, l’invito ad unirsi agli psicoterapeuti per fornire un significato ai valori ultimi che sono intrinseci nella capacità che ha il paziente di controllare il proprio allorchè con un atto di volontà può passare la propria energia libera da uno Stato dell’Io ad un altro”.

Su questi punti Berne si fermò e, probabilmente, questa fu la carenza che non permise di promuovere pienamente lo sviluppo del suo sistema teorico, da una terapia di tipo essenzialmente comportamentale ad un approccio più profondo di tipo esistenziale, ove il cambiamento fosse il prodotto di un processo di consapevolezza, governato da un permesso profondo di accettazione per la condizione umana. F. Perls colse questi aspetti e si mosse decisamente in tale direzione. L’idea di un Sé primordiale, concepito con varie definizioni anche da diversi psicoanalisti, è essenziale per concepire un nucleo che viva al di là degli adattamenti, un centro promotore di esperienza che si caratterizzi per qualità che non sono definibili e neanche conoscibili dalla capacità percettiva di una “mente strutturata”. È attingibile solo in particolari stati di coscienza, allorchè sia possibile penetrare la natura del vuoto, uno spazio della coscienza ove la definizione della sua qualità non è più necessaria in quanto la qualità dell’esperienza e l’esperienza stessa non sono scisse.

Naturalmente, ci sono delle tecniche per attivare l’esperienza di un Sé primordiale e molti tipi di catalizzatori. Voglio considerare adesso un aspetto che, di solito, viene trascurato nell’analisi delle cause che determinano la patologia. Dalla concezione freudiana, fondata soprattutto sugli aspetti intrapsichici, si è passati alla concezione di tipo evolutivo fondata sulle relazioni oggettuali nelle quali ha assunto rilievo l’ambiente. L’AT stessa può rientrare in quest’ultimo filone se consideriamo che in fondo, nella teoria berniana, la patologia può essere considerata come il risultato di un conflitto tra il G e il B e quindi tra i bisogni del bambino e gli impedimenti ambientali. Quello che è poco considerato è il limite interno, il messaggio che viene dall’interno, in ogni fase evolutiva, indipendentemente da ciò che fanno gli altri, l’esperienza di non farcela, di non essere capace, non perché qualcuno me lo impedisce, ma semplicemente perché sono limitato, la mia natura non me lo permette.

Quello che è un limite connaturato alla condizione umana, nei processi cognitivi del bambino si “personifica”, diventa un’entità. Viene autogenerato un G1 che è il prodotto di un processo di personificazione di un’esperienza durante la quale si è vissuta un’incapacità. Accanto alle ingiunzioni e ai permessi generati da messaggi esterni, ci sono permessi e ingiunzioni che partono dall’interno, che hanno a che fare con il raggiungimento delle mete che il bambino si prefigge o con il fallimento.

Una brutta caduta ad esempio, da un muro su cui si è arrampicato, i tanti piccoli incidenti di apprendimento, sono tutti limiti con i quali il bambino si scontra e che gli ricordano che non può fare tutto quello che si prefigge. Penso che questi tipi di ingiunzione possano essere inseriti tra quelle che producono impasses di terzo grado, tenendo presente che in questo caso il messaggio esterno veramente non esiste. Il bambino produce credenze, convinzioni che sono effetto dei propri limiti naturali che non accetta perché entrano in conflitto con i suoi ideali di perfezione, con un “dover essere” che non è solo messaggio genitoriale, ma caratteristica naturale dell’orgoglio umano.

Accettazione ed autenticità

Sia nell’affrontare problematiche relative all’identificazione con il proprio adattamento che per quelle relative ai limiti naturali, vale il principio gestaltico di “stimolare e sostenere l’espressione autentica” (Naranjo, 1991) sino a produrre un “atteggiamento” che consiste nell’essere se stesso con “consapevolezza e responsabilità” e, cioè, “essere dietro alle proprie azioni e sentimenti”. Il permesso fondamentale diventa quello di smettere “il dover essere” che include in Sé, come dicevo sopra, non solo il mondo genitoriale e delle introiezioni, ma anche le idealizzazioni, i miti, i deliri di onnipotenza che sono autogenerati. Il paziente che insiste a voler cambiare, ha bisogno del permesso di smettere di voler cambiare. In fondo, nell’ideale del cambiamento c’è un profondo rifiuto per se stesso e risponde ad una convinzione prodotta da A1 che “così com’è non va” e anche i limiti naturali vengono vissuti come limiti personali: non può perdonarsi le sue incapacità e le sue paure.

Il paradosso gestaltico del cambiamento è basato sull’idea che è proprio l’accettazione del limite il fattore di guarigione. Se contatto il mio limite senza giudizio negativo o rifiuto, subentra uno stato di rilassamento interiore, il gioco dell’autotortura cessa e subentra la persona autentica che può finalmente mostrare il suo aspetto “luminoso”, sepolto dietro la lotta per essere diverso. Se il G dà il permesso di essere come si è, avviene il cambiamento, inteso come accettazione della propria condizione.

Accettazione non è lasciar correre, non è pigrizia o edonismo, né contiene un’idea del tipo “tanto non c’è niente da fare”. L’accettazione del limite è muturato dalle antiche tradizioni spirituali e la gestalt se n’è appropriata. Questa accettazione ha a che fare con la comprensione profonda della relatività e della impermanenza di ogni esperienza che viviamo. Anche la nostra identità, il nostro Sé sono provvisori, nonostante gli sforzi che facciamo per mantenere la loro rigida struttura.

Il bambino non può accettare il limite e il genitore è poco propenso a perdonarglielo. Vede in lui riflesse le proprie incapacità. Diventa critico e non gli dà il permesso di apprendere perché rifiuta di vedere che lui stesso è incapace. Poiché non ha perdonato se stesso, non può farlo con il bambino, sul quale proietta le sue incapacità e le sue paure, credendo in tal modo di liberarsene. Il paradosso dell’accettazione produce un permesso ad essere umano che favorisce nel bambino una tensione ad apprendere nonostante gli errori e nel genitore una calda comprensione per il bambino che sbaglia con la quale favorisce la crescita.

“Arrenditi a ciò che sei”, vivi l’infelicità e il dolore come vivi il piacere. “Non restringere la tua consapevolezza” (Naranjo, 1991). In fondo il meccanismo della scissione è promosso dalla incapacità del bambino di vivere la frustrazione e quindi dall’evitamento delle esperienze dolorose. La scissione più o meno grave è schema fisso dell’individuo adulto, che resta fissato in una divisione dell’esperienza in polarità. È importante precisare che il permesso di essere come si è, si scontra con la grande resistenza di chi vuole mantenere l’adattamento e che è più difficile da gestire con patologie regressive, per le quali il limite è sinonimo di impotenza, di immobilità, che produce profondi sensi di angoscia alla stessa maniera del rischio di perdere il proprio adattamento. Ciò non vuol dire che non si possa adottare anche con questi pazienti lo stesso tipo di lavoro, ma i tempi sono più lenti ed è necessaria più protezione e comprensione.

Conclusioni

In conclusione, i messaggi limitanti possono provenire dall’esterno e dall’interno. I primi vengono introiettati e, se molto arcaici o di fronte a bisogni molto profondi di sentirsi riempiti, subiscono una vera e propria incorporazione che è più vicina ai meccanismi di confluenza e quindi simbiotici. Si ha bisogno di mettere l’altro dentro per riempire un vuoto e diventare un’unità. Non importa se sono messaggi positivi o negativi, sono strutturanti. Quando il terapeuta agisce su di essi, il paziente sperimenta un grosso senso di vuoto. Per lo stesso motivo il paziente regressivo va nel panico se gli proponiamo tecniche gestaltiche di espressione e di aggressività contro i genitori incorporati. Vive il genitore come parte del suo Sé e non può espellere i messaggi genitoriali senza distruggere se stesso.

L’altra possibilità è che si difenda con una desensibilizzazione emotiva che fa compiere il gesto automaticamente, ma senza partecipazione. Non può tollerare di perderli, sono la sua identità. Questo concetto è così esemplificato da un paziente: “Quando il messaggio è cattivo e mi sento angosciata e persa, mi dico che la vita è brutta, e solo questo mi dà. Divento piccola, bisognosa e se quello che ho a portata di mano sono messaggi cattivi, comunque, li metto dentro, perché è l’unica cosa che ho. Così riempio il vuoto: questo è importante”.

Quando il meccanismo è più sul versante nevrotico e, quindi, più specificamente introiettivo, il Genitore produce limitazioni dalle quali è più facile prendere distanze, perché pure essendo parte del Sé, mantiene una separazione. L’introiezione ha soprattutto la funzione di lenire l’angoscia che proviene dall’incongruenza tra il bisogno e quanto l’ambiente richiede. Il messaggio introiettato è vissuto, comunque, come un corpo estraneo messo dentro ma non assimilato. I messaggi interni costituiscono una terza categoria e sono prodotte da esperienze direttamente vissute dal bambino durante le quali, indipendentemente dall’intervento del mondo esterno, ha sperimentato il suo limite formando convinzioni definitive sulle sue incapacità. Si tratta dei piccoli o grandi incidenti nei quali incorre il bambino per la sua naturale limitatezza. I messaggi incorporati e quelli autogenerati possono facilmente produrre processi di alienazione dalla realtà attraverso l’idealizzazione, deliri di onnipotenza, di grandiosità, allucinazioni. Voglio introdurre un ulteriore concetto, quello di “carattere” che fa da corollario a quello di identità e di adattamento. L’attenzione al carattere nelle sue diverse configurazioni, dalla diagnostica psichiatrica alle tipologie elaborate da più autori, ha lo scopo di inquadrare delle caratteristiche che aiutino nella comprensione del paziente e di tracciare delle linee generali che possano facilitare l’approccio. Naranjo ritiene che la Psicoanalisi fa corrispondere Io e Sé e che la migliore traduzione del termine “Io” non sia l’Io della Psicoanalisi ma il carattere, “la somma complessiva delle risposte adattive prese nell’infanzia, che non sono veramente noi” (1991). Reich aveva formulato l’idea che il carattere avesse funzione difensiva. Perls affermava che una persona ideale è una persona senza carattere, cioè senza condizionamenti (Naranjo, 1991). Ritengo che anche Berne abbia avuto una particolare inclinazione a sviluppare gli aspetti caratteriologici. Il concetto di BA è di per sé insufficiente ad un lavoro più profondo sul tipo di adattamento mentre, ad esempio, la galleria di personaggi che emerge dal lavoro di Berne sui Giochi è un vero e proprio repertorio di caratteri sia nell’aspetto comportamentale che in quello intrapsichico, inteso come processo di adattamento. Naranjo ritiene che il carattere “sia il punto fondamentale di tutte le psicoterapie, che richiede approfondimento e completamento”. Oggi propongo un accenno molto sintetico a quello che considero il lavoro più ampio e articolato sulla caratteriologia, la Protoanalisi, un sistema coerente di diagnosi e cura integrabile con l’organizzazione della teoria A.T. per offrire ulteriori possibilità interpretative ai comportamenti del BA. La Protoanalisi, che ha una sua storia e tradizione, propone nove tipi di caratteri, che definisce come “passioni”, rappresentate su una figura, l’enneagramma, sul quale attraverso particolari operazioni, vengono fissate le nove passioni, a ciascuna delle quali corrisponde una descrizione caratteriale con nove sub-tipi. Prendiamo ad esempio il numero Nove, la Pigrizia. Contrariamente a quanto suggeisce l’opinione comune, pigrizia non corrisponde ad inattività, anzi, in senso motorio, il pigro agisce molto. La sua è piuttosto una pigrizia interiore, è un rivolgersi poco alla conoscenza di Sé. Il Pigro è una persona disponibile e molto attiva che ha una fissazione nell’Iperadattamento. Privilegia come meccanismo difensivo la distrazione e la rinuncia altruistica. Ha una particolare storia evolutiva e caratteristiche relazioni oggettuali che contribuiscono a formare la tipologia. Ha una via di uscita nell’adottare una specifica virtù che è intrinseca nel suo tratto caratteriale. Il cambiamento avviene attraverso un processo di auto-osservazione, un lavoro analitico su difese, fissazioni e relazioni oggettuali, un impegno di trasformazione attraverso l’adozione di nuovi comportamenti per accedere, infine, attraverso la meditazione, alla condizione virtuosa nella quale l’identità, intesa come tipo caratteriale, viene abbandonata a favore dell’autoregolazione organismica. Credo che la Protoanalisi possa offrire un’ottima integrazione all’A.T, soprattutto in fase diagnostica e per l’elaborazione dei contenuti dei processi cognitivi che formano il Copione, che può essere rivisitato centrando l’attenzione sulla decisione esistenziale in termini di tipo di carattere.

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