L’immagine di sé. Considerazioni sul narcisismo tra Gestalt e Analisi Transazionale

Pubblicato in: Atti del convegno “Nuovi orientamenti in psicologia clinica”, Ed. Kappa, Roma, 1989.

 

 “Per evitare l’impatto emotivo dell’abbandono e le conseguenti convinzioni di non essere amabile e di non valere, il bambino si crea un’illusione di onnipotenza e grandiosità, immaginandosi estremamente dotato e illimitato nelle sue capacità”.

Esaminerò l’aspetto narcisistico della personalità considerandolo come base comune ad ogni malessere esistenziale.

Non mi occuperò specificamente delle patologie narcisistiche ma piuttosto delle considerazioni che mi portano a ritenere che il narcisismo è una componente della natura umana e quindi presente in ogni forma di patologia con varie sfumature di intensità.

La mia idea è che nessuna terapia è veramente efficace se non si pone come meta l’affrontare la polarità, la scissione estrema che vive l’individuo, diviso tra il sé grandioso, la sua illusione di essere onnipotente, immortale, irresistibile e i profondi sensi di svalutazione, di impotenza e vacuità.

In “Ciao… e poi?” E. Berne dice che il bambino venendo al mondo è potenzialmente libero, ma presto comprende che questo non è vero.

Presto si rende conto che è totalmente dipendente da altri molto più grandi e potenti di lui. Si affaccia al mondo come un nano in una terra di giganti che spesso assumono sembianze di orchi, di streghe, di fate. (1979). Dipende dall’esterno per la sua stessa sopravvivenza. In questa situazione due bisogni reclamano attenzione: vivere ed evolversi.

Secondo F. Perls sono i due bisogni fondamentali ai quali possono essere riferiti tutti gli altri, sia quelli fisiologici, legati al sopravvivere, sia quelli più strettamente psicologici, legati all’evolversi. (1977).

E’ nella relazione individuo-ambiente e nelle vicende di questo rapporto che si determina il futuro di quel bambino, continuamente combattuto in questo paradosso: ritornare all’originale paradiso simbiotico o separarsi (Polster, 1986). Nei primi anni di vita i genitori e le figure sostitutive emettono messaggi di due tipi: “Permessi” e “Messaggi limitanti” (più propriamente detti in Analisi Transazionale: messaggi in copione).

Il “permesso” tende a soddisfare il bisogno e a favorire il raggiungimento e il superamento delle tappe evolutive. E’ teso allo sviluppo psico-fisico del bambino e in quanto tale può essere assimilato. Il primo fondamentale permesso che riceverà venendo al mondo è quello di “esistere”. Lo percepirà quando sarà soddisfatto nei suoi bisogni di nutrimento e calore, sia fisico che emotivo, cioè quando riceverà tutte le cure necessarie per la sopravvivenza.

I messaggi limitanti assumono la forma di divieti ( non fare… non piangere, non sporcare, non correre…) o di ordini ( devi essere buono, devi obbedire, devi essere gentile, femminile…) oppure arrivano al bambino sotto forma di esempi e modelli ( il padre che lavora tutto il giorno, i litigi di famiglia, le reazioni di fronte alle situazioni difficili…).

Questi messaggi diventano per il bambino delle introiezioni, non saranno mai veramente integrati nella personalità. Secondo la forza con cui il messaggio è dato e l’età in cui il bambino lo riceve varierà l’impatto e quindi l’influenza sullo sviluppo e la crescita.

È importante a questo punto sottolineare che il bambino nel conflitto tra i suoi bisogni da un lato e le opposizioni ambientali dall’altro assume un ruolo attivo, cioè opera delle scelte, certo condizionate dagli eventi esterni, ma del tutto personali, e costruisce il suo unico e individuale adattamento all’esistenza.

Le sue capacità logiche sono limitate. Adotta il pensiero magico, concreto, intuitivo. Ha un enorme potenziale creativo ed una fantasia. C’è in lui un Piccolo Professore, come lo chiama E. Berne, che si dà spiegazioni delle esperienze che vive, interpreta al suo livello, quindi in maniera intuitiva, le limitazioni che gli vengono imposte. Sono spiegazioni alterate della realtà che si sostituiscono alla concreta soddisfazione del bisogno impedito. Si costruisce un mondo di fantasie e illusioni che da una parte costituiscono una difesa alla intollerabile angoscia proveniente dal bisogno frustrato, d’altra parte diventano uno strumento di evitamento del contatto con la realtà, che una volta preso caratterizzerà il suo sviluppo e la vita futura.

Con un esempio forse sarà più chiaro il processo e le conseguenze. Se la madre si ammala ed è costretta a lasciare la casa per un periodo di ospedalizzazione, al bambino piccolo viene a mancare la soddisfazione di alcuni dei suoi bisogni fondamentali, amore, affetto. Da una parte il dato esterno ambientale, la madre non c’è, d’altra parte il dato interno al bambino: il bisogno che reclama soddisfazione. Il bambino non ha capacità per accettare l’evento, non può capire cosa realmente avviene. È solo il contatto con la sua sofferenza e con il panico della perdita.

A questo punto interviene il pensiero magico e intuitivo: il Piccolo Professore. Sì da una reazione cognitiva di quanto gli capita, adeguato ai suoi mezzi. La spiegazione, fuori contatto dalla realtà, sarà ad esempio del tipo: “ Non sono degno di affetto”, “ Nessuno si occupa di me”, “ la vita è triste”.

Naturalmente adeguerà il suo comportamento alle fantasie. La conseguenza potrebbe essere che imparerà a “ non fidarsi degli altri” o decidere “di non avere rapporti affettivi”.

Al di là di questo esempio estremo, ogni volta che nasce un conflitto tra il bisogno del bambino e l’opposizione, il no dei genitori, il rischio è catastrofico. Opporsi a papà e mamma, farli dispiacere, significa perdere il loro amore dal quale è totalmente dipendente.

Il rischio è il vuoto, il nulla.

Anche i comportamenti ribelli sono un modo per ottenere affetto e attenzione. Il messaggio implicito che riceve dai genitori é: se fai come ti dico ti amerò e ti proteggerò. Senza di noi non puoi neanche esistere. Sei come nulla. Quello che il bambino capisce è che non ha il diritto di essere come è. Le sue caratteristiche, il suo potenziale vengono deviati, distorti. Perde il contatto con la sua saggezza naturale, con il processo di autoregolazione organismica, con la consapevolezza stessa dei suoi bisogni.

Si costruisce un’immagine di sé, si impone una modalità di essere, comincia a giocare un ruolo che nella sua fantasia lo renda più accettabile. Non può tollerare il senso di vuoto e nullità che sperimenta con il rischio della perdita e della separazione. Si inventa una bugia per sopravvivere alla profonda angoscia relativa alla propria impotenza. Il piccolo “nano” si inventa di essere un gigante ancora più grande e potente di quelli che popolano il suo mondo. Si immagina speciale, diventa grandioso, allucina onnipotenza.

Divide il mondo in due: quello che ha valore e quello che non lo ha. Apparentemente sceglie quello che ha valore, di fatto si sta condannando all’impotenza. Si costruisce una mappa ben definita per la sua esistenza, si crea una gabbia nella quale struttura e confina la sua esperienza. Si sente sicuro ma limitato.

Elimina da sé il rischio di vivere, di esistere e sogna una libertà che diventa un mito, perché lui stesso la ha imprigionata, scegliendo la sicurezza al posto dell’avventura.

Il paradiso simbiotico prevale sul rischio della separazione.

 

Narcisismo come patologia

Il discorso portato avanti fin qui è applicabile ad ogni tipo di disturbo psicologico, nelle sue linee generali.

Volendo esaminare più dettagliatamente il narcisismo, inteso come patologia, nella ipotesi che sto presentando, l’interruzione del contatto avviene in quella zona di confine tra individuo e ambiente ove sono impediti i bisogni relativi all’evolversi piuttosto che all’esistere, al vivere.

Più specificamente i bisogni relativi all’ esplorare, al conoscere, all’essere riconosciuto. L’età evolutiva si può far risalire al tempo della separazione dalla madre e all’inizio della esplorazione dell’ambiente, che via via che il bambino cresce, diventa sempre più ardita e onnipotente.

D’altra parte l’ambiente, la madre, per qualche ragione sottrae la sua disponibilità emotiva al bambino.

Più specificamente nelle patologie “ caso al limite” il bambino non si sente appoggiato. La madre ritira la sua attenzione quando il figlio esplora l’ambiente. Appena si riavvicina e offre molte carezze e protezione. Quello che il bambino capisce mediante il Piccolo Professore che si trova a mediare tra il bisogno e l’impedimento del bisogno, è che la madre non vuole che prenda autonomia, cioè che cresca.

In effetti la madre coltiva la simbiosi per evitare i suoi sentimenti di essere abbandonata. La conseguenza è che il bambino per evitare il rischio dell’abbandono, che si connota con i vissuti di non esistere, di morire, si adatta alla relazione simbiotica e arresta il proprio sviluppo.

In qualche modo diventa madre della propria madre.

Il narcisismo patologico più propriamente detto può prodursi in un momento più avanzato della crescita, quando il bambino entra nella sua fase di riavvicinamento. In questo periodo il bambino diventa consapevole della minaccia di separazione dalla madre. La sua curiosità onnipotente nella esplorazione del mondo si mitiga e torna a vedere se la madre è sufficientemente affidabile e costante.

Se in questa fase la madre è fredda, distaccata, o assente perché ad esempio è nato un altro figlio a cui sta prestando tutta la sua attenzione, il bambino sperimenta vissuti di perdita. Per evitare l’impatto emotivo dell’abbandono e le conseguenti convinzioni di non essere amabile e di non valere, che lo spingono in un baratro di vuoto e di separazione si crea una illusione di onnipotenza e grandiosità, si immagina estremamente dotato, illimitato nelle sue capacità. Cioè usa come meccanismo difensivo quelle che erano le naturali caratteristiche della precedente fase di esplorazione. (Thomson, 1983).

Da quanto detto fin qui ne consegue che il paziente ha perso il contatto con sé. Si è allontanato dalla propria realtà. Ha messo una serie di barriere e di blocchi tra il vero sé e l’adattamento che si è costruito.

L’impegno in terapia sarà allora di ristabilire il contatto evitato. Questo solo intervento già produce cambiamento. Se scopro come mi interrompo, come evito l’esperienza, le resistenze che adopero, entro in contatto con la verità di come sono. Io sono i miei conflitti, le mie incertezze, i miei limiti, non i modelli elementi artificiali che mi sono imposto. Se incomincio ad accettarmi per quello che sono posso ricostruire la mia autostima e il mio auto appoggio anziché dipendere dalla stima e dall’appoggio esterno, in funzione del quale recito le mie bugie.

Alla fine del contratto F. Perls ha elaborato l’esperienza che chiama: il continuo di consapevolezza che è insieme un metodo di lavoro terapeutico e una sintesi del pensiero gestaltico. Qui e ora sperimento la consapevolezza di esistere con le mie sensazioni corporee, con le mie emozioni, con i miei pensieri. La consapevolezza in questo caso non è una mera comprensione intellettuale ma una esperienza di profondo contatto con il fenomeno dell’esistere. Vivendo profondamente l’esperienza di come sono sperimento i modi come mi interrompo e posso consapevolmente scegliere di cambiare.

Le tecniche e le modalità sono tante ma il principio è uno: ripristinare la verità, scoprirsi per come si è per uscire dalla trappola del dover essere. Se posso accettarmi e rispettarmi per come sono entro nella normalità.

  1. Perls Diceva che l’uomo trascende se stesso solo mediante la sua vera natura e non attraverso le ambizioni e le mete artificiali. Tra sé e concetto di sé esiste uno stato di confusione: è proprio in questa confusione che il cliente può esplorare.

Di fronte al disagio della confusione la tendenza è andar via. Ma se sperimenta a fondo la confusione senza evitarla si trova il vuoto. Questo vuoto non è una mancanza di essere ma una pienezza chiara.

Quando entriamo nel vuoto, diceva Perls, e lo accettiamo, il deserto comincia a fiorire. L’idea è che non c’è nulla da eliminare, posso utilizzare la confusione come il sintomo per provocare assimilazione e quindi integrazione.

Le tecniche che insegnano il controllo del sintomo non fanno altro che instaurare un nuovo conflitto ove una parte del sè ne controlla un’altra. L’equilibrio è fittizio perché abbiamo ucciso la personalità in un controllare e in un controllato, supponendo che c’è un aspetto positivo che deve prevalere su quello negativo.

L’approccio della Gestalt

Ma lo scopo della terapia non è di eliminare le parti cattive a favore di quelle buone. Questa scissione ha provocato la patologia. Lo scopo della terapia gestaltica e di integrare gli aspetti dualistici.

In Gestalt e in Analisi transazionale si usa mettere a confronto il dialogo due aspetti polari della personalità. Il Genitore e il Bambino, il tiranno e il suddito o come lo chiamava Perls “il cane di sopra” e “il cane di sotto”.  Anche questa esperienza provoca consapevolezza e contatto con sé.

Se ad esempio con un paziente narcisista si mettono a confronto il Sè grandioso da una parte e l’Impotente dall’altra, via via che il dialogo tra i due aspetti della personalità procede il conflitto può di venire meno aspro e la scissione può ridursi.

I due personaggi incominciano a conoscersi a scoprirsi ad esplorarsi, e quello tutta grandiosità e onnipotenza diventa più piccolo, mentre l’ impotente, incapace, comincia a crescere, a prendere energia.

Avviene uno scambio tra i due. Possono anche scoprire come ciascuno è utile all’altro, come lo aiuta. Tra i due poli sorge un senso di “medietà” e “normalità”. Compare una nuova coscienza di sé visibile e riscontrabile anche dall’atteggiamento, dalla voce, dal colorito, oltre che per quello che dice.

Al posto dello “ speciale” del “ diverso” freddo o aggressivo, presuntuoso o distaccato che non si concedeva sentimenti di debolezza, fragilità, impotenza, c’è una persona più accettante, più calda, più umana, vibrante di energia.

Questa volta il sorriso di gratitudine al terapeuta contiene un sentimento, non è la smorfia contratta di chi sta mettendo su lui un idolo un modello che segretamente vuole abbattere. Al posto di un Bambino prepotente e manipolatore c’è un Adulto responsabile e consapevole. È solo un attimo di esperienza durante una seduta terapeutica, ma è anche un progetto esistenziale a cui il paziente può mirare. Trovare la sua normalità attraverso il conoscersi.

Le antiche decisioni limitanti possono essere ridecise. Scopre che ci vuole molta energia per bloccarsi, interrompere il flusso vitale e per mantenere in piedi un uomo fittizio, di plastica. Contattando le parti evitate di sé, i sentimenti repressi, le paure, i limiti, il paziente sta guardando la sua realtà senza pregiudizio e può scegliere cosa vuole assimilare e cosa buttar via. Per ristabilire un contatto realistico con il mondo esterno gli saranno di supporto il terapeuta e il gruppo con i loro feedback e confrontazioni.

Si addestrerà al dialogo Io-Tu acquisendo consapevolezza e accettazione di essere separato dall’altro e sperimentando la possibilità di pienezza nel contatto con una persona dalla quale non si sente dipendente e che non viene usata come strumento per soddisfare i propri bisogni.

L’esperienza di contatto Io-Tu con il terapeuta visibile è attivo, consente di stabilire una relazione che non sia soltanto densa di vissuti transferali. Permette una relazione tra due specifiche persone. Quando i due si possono guardare con occhio privo di pregiudizi, i modelli cominciano a cadere, così come le paure e le proiezioni dettate dalla fantasia, piuttosto che dalla realtà.

La guarigione prevede cambiamento e il cambiamento paradossalmente si verifica quando smetto di voler cambiare e accetto di essere quello che sono. L’idea della Gestalt è che per guarire dal dolore non posso fare altro che sperimentarlo fino in fondo. C’è uno “spastico” in ognuno di noi che reclama attenzione e posso solo fingere di nasconderlo. Il punto non è curare l’angoscia ma accettarla come parte e natura intrinseca delle cose.

La persona sana non è quella che non sperimenta la sofferenza, la paura, il conflitto, ma quella che riconosce questi suoi limiti come elementi della condizione umana e accetta di conviverci. Questo non vuol dire rassegnarsi ma essere realisti e consapevoli.

Nel nostro Karma è inclusa l’impermanenza e non possiamo far altro che essere nel processo dell’esperienza.

 

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