Il carattere invidioso-insoddisfatto

da Antonio Ferrara
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crescita sociale e crescita personale

Pubblicato in: Neopsiche, nuova serie, Anno II – n. 26, 2000.

 

“Il carattere invidioso si organizza intorno ad un complesso vissuto al centro del quale emerge il bisogno d’amore”.

 

È implicita nell’essere umano la tendenza a programmare il comportamento rendendolo ripetitivo e riconoscibile. È compito della psicologia scoprirne le regole e dargli significato. Si tratta di una necessità, un corollario della berniana fame di struttura, ed ha peso rilevante al fine di organizzare il carattere. Tale necessità diventa infine il mezzo stesso attraverso il quale l’uomo si conosce e si fa conoscere. Dal nostro punto di vista è importante perché diventa la maniera per entrare in relazione.

Come ho avuto occasione di dire già in altri contesti, prima ancora di formulare una teoria della comunicazione, in “A che gioco giochiamoBerne presenta una articolata galleria di caratteri umani. Le manifestazioni comportamentali narrate attraverso la sintesi descrittiva che culmina in pochi tratti evocativi dai quali si evincono intere storie umane, quali “Goffo pasticcione”, “Gamba di legno”, “È tutta colpa tua…”, non ci parlano ancora di gioco psicologico, ma ci presentano un personaggio, così come lo troviamo nelle storie di ogni giorno, nella letteratura e nel teatro.

Il contenuto, la rete sottostante di fatti e avvenimenti, comprende le regole dell’eventuale dramma, questa volta in relazione, al quale ciascun personaggio può dar vita. Attraverso il carattere si manifesta il racconto di una esperienza individuale, espressione di un darsi spazio nel mondo come effetto del proprio incontro con gli altri.

La definizione di una personalità in generale o di un tipo psicologico, è l’equivalente del dare un titolo ad una storia individuale, per certi versi unica e irripetibile, e per altri versi legata a linee predefinite, non uguali per tutti, ma specifiche di alcuni gruppi di uomini e di donne. Differenziazione e replica di fenomeni comuni compongono somiglianze e divergenze, per cui con alcuni ci sentiamo simili fino ad identificarci, e da altri ci sentiamo lontani, diversi o addirittura polari.

Questa premessa mi è utile per trattare di un carattere specifico che di frequente incontriamo in terapia sotto varie forme patologiche, il carattere invidioso. Generalmente si parla di sentimento di invidia e quindi di una forma emozionale che impronta un certo comportamento. Originariamente la spinta motivazionale è sana. Le emozioni guidano verso gli oggetti e ci aiutano ad individuare ciò di cui abbiamo bisogno.

La forma emozionale può tuttavia diventare un aspetto che connota l’intera personalità. Se siamo invitati ad immaginare com’è una persona invidiosa, facilmente le caratteristiche che le attribuiamo hanno un certo grado di somiglianza con quelle scelte da altre persone chiamate a fare la stessa esperienza. Questa conoscenza è parte di un patrimonio comune. Al di là delle manifestazioni abitualmente riconosciute, ciò che fondamentalmente contraddistingue il sentimento di invidia a livello istintuale, è la spinta a cercare nell’altro, fuori da sé, quello di cui si ha bisogno.

È questo un tipo di comportamento che appartiene a noi tutti, perché è naturale prendere dall’esterno, dall’ambiente, ciò che serve a soddisfare le nostre necessità. L’etologia ci insegna che il potenziale aggressivo porta a cercar fuori e che è fondamentale per la sopravvivenza. Questa comune energia motivazionale per alcuni diventa un’emozione fissa, per cui l’aspetto naturale che originariamente garantiva la sopravvivenza e proteggeva, finisce con il trasformarsi in una condizione abituale e ripetitiva. Diventa carattere e la persona assume un personaggio nel quale si identifica e attraverso il quale si relaziona al mondo.

Il nucleo fondante del suo comportamento si articola su un’idea generalizzata: l’altro possiede più cose. È una svalutazione dalla quale emerge un desiderio acuto e a volte malevolo di prendere da chi presuntivamente possiede di più. L’attenzione compulsiva all’esterno svia dai propri effettivi bisogni e fa perdere di vista quanto già si possiede in termini di affetti o di cose. Dicendolo con una metafora: se ho una montagna di cioccolatini proprio qui e posso prenderne quanti ne voglio, poiché ho perso di vista l’oggetto reale del mio bisogno, vado a cercarmi quell’unico tipo di cioccolatino che qui non c’è, con l’idea che da qualche parte ci dovrà pur essere. Il risultato è che, per quante cose io possa avere, sarò sempre insoddisfatto.

In effetti l’invidia è strettamente connessa ad uno stato di carenza che è implicito nella condizione umana, un vuoto ontologico che è lo sfondo principale di ogni nostra sofferenza. È uno stato che porta ad un desiderio perenne di riempimento. Ovviamente non mi riferisco al bisogno di nutrirsi o a necessità comuni ma piuttosto, parlandone in termini esistenziali, ad un senso di vuoto profondo, alla perdita di qualcosa che non sappiamo cosa sia, forse uno stato di felicità primordiale, il legame con un ente superiore, una pienezza originaria che ci è appartenuta, che è stata nostra ed ora non possediamo più.

A prescindere dal tipo di carattere ognuno di noi vive, al fondo, un’esperienza simile. Il vuoto è angosciante e in generale cerchiamo di riempirlo in ogni modo possibile, con l’illusione di eliminarlo. Per alcuni invece il vuoto diventa una presenza costante e finisce con il caratterizzarne la personalità.

Lo stato di carenza, vera o falsa che sia, viene riferito, e poi fissato, alle contingenze quotidiane intorno alle quali si attivano i bisogni verso cui è più facile concretizzare carenze e necessità. Gli stati di vuoto esistenziale sono i più lontani dalla coscienza e quindi difficili da trattare. In termini psicologici l’invidia è originata dalla frustrazione di bisogni primari e dal rifiuto di un effettivo svezzamento. Si crea infine un’associazione e quindi si attribuisce una parità di significato, tra vuoto esistenziale e carenze concrete.

La spinta naturale a cercare fuori da sé, quando si fa esasperata per il fatto che non è più congruente con il contesto, diventa un’emozione inefficace, sovraccarica com’è di eccitazione mal diretta. Nonostante la forte carica motivazionale chi viene preso nella trappola dell’invidia, e proprio per questo, non raggiunge la meta, vive un paradosso: se lo vuole di più non l’ottiene. Altro punto problematico, frutto di una confusione cognitiva, è che l’oggetto sul quale viene concentrata l’attenzione è ‘l’altro’ che si presume abbia di più, e non l’effettivo bisogno. Si perde di vista il vero obiettivo, soddisfarsi.

L’azione diventa unilaterale e viene a mancare la flessibilità che occorre per ottenere il risultato. Non si cerca più ciò che serve ma si guarda a ciò che manca e poiché manca sempre qualcosa, c’è sempre una ragione per soffrire. Il bisogno va sullo sfondo ed entra in primo piano la persona o, generalizzando, il mondo intero che si rifiuta di dare. Gli impulsi originari si strutturano in sentimenti pervasi di malevolenza generati da un’idea guida: “Perché lui sì e io no?”. M. Klein considera il sentimento di invidia legato allo stadio orale e quindi alla frustrazione di bisogni primari.

Il carattere invidioso si organizza intorno ad un complesso vissuto al centro del quale emerge il bisogno di amore: l’invidioso è affamato d’amore, un cacciatore d’amore purtroppo perennemente insoddisfatto. È un’esperienza generalizzata: il bambino vuole più amore, tutti ne vogliamo di più e non ci rassegniamo all’idea che al mondo ce ne sia così poco. È difficile accettare che l’amore umano sia limitato, così come è difficile provare gratitudine per quelle piccole quantità che, anche se in forme inadeguate, comunque otteniamo. È intorno alla carenza d’amore che primariamente si organizza la struttura del carattere invidioso-insoddisfatto. Ed è a partire da questa base che si sviluppa la sofferenza che nelle sue diverse forme lo caratterizza.

Secondo la Psicologia degli Enneatipi, il sistema teorico e pragmatico che più ha studiato le tipologie del carattere, anche in relazione ai moderni strumenti e categorie diagnostiche della personalità, sono due i nuclei essenziali intorno ai quali si organizzano i tipi psicologici.

Ne ho già parlato in altre occasioni proponendo, come fa questa teoria, l’esistenza di un nucleo emozionale e di un nucleo cognitivo, dall’incontro dei quali discende l’organizzazione di schemi strutturali e comportamentali che improntano la personalità. Mentre nella teoria del Copione entrano in primo piano i processi relazionali insieme all’analisi dei messaggi ambientali e della loro natura, nonché l’interpretazione che il bambino fa di loro, in questo modello vengono focalizzate, come punto di partenza, le matrici emozionali e cognitive, come basi per le organizzazioni successive. Si fa riferimento ad un centro “passionale” costituito di emozioni che, a causa della loro esasperata  incidenza nel comportamento, assumono coloriture patologiche.

Sono manifestazioni distorte ed esagerate di emozioni naturali che hanno perso la loro originaria connotazione e funzione, basandosi su deliri del bambino che immagina: “Se lo faccio di più, se lo vivo di più, otterrò quello che desidero”. In questo caso siamo posseduti dall’emozione e quindi ne perdiamo il controllo.

Per quanto concerne l’invidia, l’idea di base che trasforma lo stato emozionale in passione è: “Se cerco di più nell’altro quello che a me manca, infine lo otterrò”. A partire da tale posizione si attiva un atteggiamento di pretesa che viene fondato sul pregiudizio che l’altro non voglia dare. Ma chi pretende genera rifiuto oppure risposte di falsa accoglienza che confermano l’originaria posizione di sfiducia nei confronti del mondo, della vita, ma anche del proprio valore e delle proprie capacità. Le forme emozionali appassionate non danno effettive gratificazioni e non aiutano a riempire i vuoti. Per quanto concerne il centro cognitivo, questo si organizza intorno a idee fisse e insiemi di pensieri irrazionali, fondati su distorsioni della realtà e successive generalizzazioni.

I nuclei cognitivi sono strettamente interconnessi a quelli emozionali. Nel caso dell’invidia sono del tipo: niente e nessuno è in grado di soddisfarmi; non vogliono darmi ciò di cui ho bisogno; sono diverso e perciò non mi capiscono; ho una sensibilità particolare che mi rende speciale. Sono frequenti i pazienti che ci vengono a dire: “Tu non puoi capirmi, io sento qualcosa di particolare… ho una sensibilità diversa…”, mettendo in crisi le nostre capacità di empatia. In questo caso è molto probabile che stiamo trattando con un carattere invidioso. Ma soprattutto è un’idea pazza che prende la guida della personalità: se soffro abbastanza riceverò quello che voglio.

L’originario vissuto corporeo, fisiologico, si converte in una fissazione cognitiva: bisogna soffrire per ottenere qualcosa. La sofferenza dà valore e significato, nasconde aspirazioni che si sono trasformate in illusioni irraggiungibili: “Se soffro conquisterò la felicità, il paradiso” sinonimo della fantasia adolescenziale: “Un giorno arriverà il principe azzurro a salvarmi”. La nostra cultura occidentale cristiana è permeata di questo valore: soffrendo ci salveremo. L’amore stesso è legato al soffrire: è opinione diffusa che solo chi soffre conosce il vero amore. Di tali pregiudizi e confusioni sono pieni la nostra vita, la letteratura e il cinema.

Elias Canetti in una delle sue caricature propone, in termini artistici, un divertente ritratto del tipo invidioso. Il personaggio va al cinema per rifornirsi di un caldo umore, le lacrime, la sola cosa che gli possa dare piena soddisfazione. Non va al cinema per divertirsi o per passare del tempo e neanche perché gli piaccia la trama del film. Quello che cerca è una storia drammatica che lo faccia piangere, e molto meglio se piena di morti e di lutti. Solo quando le calde lacrime cominciano a scorrere lungo il suo viso e a scendere giù, fino al collo, lo “Scaldalacrime” si ristora. Più è tragica la storia e più le lacrime scorrono abbondanti, più si sente soddisfatto e allora sì che acquista senso lo star lì, in quella sala buia.

Il nucleo cognitivo, permeato di pensieri che fanno soffrire e quello emozionale, frutto di stati carenziali, formano insieme un derivato stabile e stereotipato: il carattere invidioso-insoddisfatto.

Il carattere si struttura su diversi livelli e tende a prendere ulteriori connotazioni secondo lo stadio evolutivo nel quale maggiormente si fissa. Nella Psicologia degli Enneatipi si parla di tre sub-tipi: conservativo, sociale e sessuale, rispettivamente connessi alla salvaguardia dell’esistenza, alla relazione con gli altri e agli stadi dello sviluppo sessuale e delle capacità procreative.

Anche il carattere invidioso quindi, pur mantenendo un nucleo unitario, si differenzia in tre sub-tipi e si articola secondo tratti che rispondono ad esigenze strutturali, legate agli istinti. Il sub – tipo conservativo tende ad avere una maggiore autonomia rispetto agli altri e paradossalmente a negare i propri bisogni attraverso una forma di stoica rinuncia, effetto di ripetute frustrazioni. Nega il Bambino e si traveste da Adulto. Spesso freddo e razionale, nasconde il suo mondo emotivo. A volte assume ruoli genitoriali, prendendosi cura dei suoi stessi genitori e stabilendo così processi simbiotici di secondo grado.

Il sociale è l’invidioso più tipico. È timido e vergognoso, si lamenta, piagnucola e si svaluta. Perennemente insoddisfatto, affronta male le avversità, ha poca autonomia e tende ad appoggiarsi all’esterno. Fissato nel Bambino cerca genitori a cui aggrapparsi, salvo poi a sentirsi frustrato nelle aspettative.

Il sub-tipo sessuale è il più aggressivo: compete, reclama e pretende. Vuole spazio e se lo guadagna anche con prepotenza. Più determinato degli altri, ha un carattere rivendicativo ed è quello che maggiormente lotta per conseguire i risultati che si prefigge.

Fin qui ho indicato le caratteristiche egoiche e quindi nevrotiche della personalità. Naturalmente ogni tipologia ha i suoi spazi di salute mentale. Quando il carattere invidioso si struttura in forma patologica può cadere in stati depressivi, strutturare sintomi psicosomatici o organizzarsi secondo linee border-line.

Ogni tipo di personalità ha i suoi meccanismi di evitamento attraverso i quali si garantisce la sopravvivenza e si protegge dalla frustrazione e dal dolore. L’invidioso ha blocchi evolutivi legati prevalentemente alla fase orale.

La naturale tendenza ad incorporare il mondo esterno, fenomeno che implicitamente rassicura e favorisce la ripetizione di comportamenti che altrimenti andrebbero ogni volta riappresi, può diventare meccanismo difensivo che impedisce una effettiva assimilazione delle esperienze, una introiezione meccanica che permette di avere il pieno possesso dell’oggetto d’amore trattenendolo dentro di sé, una sorta di esorcismo per evitare la sofferenza della perdita e della separazione. Questo è quello che avviene per il carattere invidioso. Pezzi di figure genitoriali o di esperienze che vengono dall’esterno restano acriticamente introiettate producendo risposte incongruenti agli stimoli.

Il meccanismo che aveva lo scopo rassicurante di controllare le immagini genitoriali attraverso una forma di possesso legata all’incorporazione, finisce con il produrre incapacità di scelta e confusione. In questo modo il tipo invidioso si salva dal rischio della separazione. L’effetto è che resta legato al passato e risponde male alle responsabilità attuali, evitando scelte e decisioni. Questo tipo di personalità ha molte alternative possibili e spesso contraddittorie. Il padre e la madre introiettati sono esageratamente conflittuali e il figlio si dibatte nelle impasses.

Altro meccanismo che impronta il comportamento del carattere invidioso è l’evitamento retroflessivo al quale sono strettamente connessi i disturbi psicosomatici. Attraverso la retroflessione, come viene chiamato in psicoterapia della Gestalt quello che Freud, con diverse implicazioni indicò come rivolgimento contro sé, l’espressione vitale, spontanea, viene repressa.

La conseguenza è che l’energia non è più attivamente rivolta verso l’oggetto esterno ma contro di sé. Solo apparentemente l’intenzione è autodistruttiva, non credo che ci siano processi psicologici volutamente mirati all’auto aggressione.

A volte si crea una discrepanza tra intenzioni e risultato. Il tentativo estremo è di salvare l’oggetto d’amore attraverso un atto disperato di rinuncia alla propria vitalità. Se il bambino intende che la sua reazione aggressiva può produrre il rischio di un abbandono, la rivolge contro sé, perché ciò che non può tollerare è la perdita. Ne morirebbe.

È un paradosso, ma retroflettendo si sta salvando la vita, perché, dal suo punto di vista, sta evitando un rischio ancora più grande, quello di perdere la madre, il padre o la persona significativa che in quel momento è in contrasto con lui. Fondamentalmente sta operando una scelta e l’effetto può essere un sintomo che rappresenta in modo simbolico un compromesso, frutto di un conflitto tra l’energia naturale che emerge dall’interno e un divieto che proviene dall’esterno, dall’ambiente che dice “no”. Il sintomo è una scelta creativa e come tale contiene in sé significato.

È proprio nel sintomo che si manifesta l’energia viva alla quale attingere per il cambiamento. La retroflessione è il meccanismo maggiormente utilizzato dal carattere invidioso di tipo conservativo con problematiche psicosomatiche. Abbiamo già visto in precedenza come questo sub-tipo tenda ad una forma di autosufficienza che implica rinuncia al soddisfarsi. Non chiede ad altri e provvede da sé contentandosi di poco. Naturalmente vive la sua carenza e soffre sopportandola in silenzio.

Voglio portare un esempio di come il carattere si associa al sintomo nel caso di un ammalato di sclerosi a placche. Si tratta di un giovane di circa trent’anni. La malattia, nella sua genesi, già suggerisce i meccanismi di evitamento difensivo che il paziente adotta. Nella sclerosi a placche il sistema immunitario anziché agire verso l’esterno per difendere l’organismo dagli eventuali attacchi che vengono da fuori, si rivolge, senza che ci sia un aggressore, contro la guaina mielinica causando una progressiva paralisi. Osservando il paziente è evidente la sua tendenza a chiudersi in sé. Si esprime con toni bassi, il linguaggio è molto controllato. Non trapelano emozioni. Il suo discorso è logico e razionale. La sua precisione risulta puntigliosa. È attento alle regole sociali, ha forte il senso di giustizia e si erge a paladino di quanti subiscono soprusi.

Durante un’esperienza di espressione corporea, invitato a scalciare contro un cuscino perde immediatamente forza nelle gambe, anzi si immobilizza, proprio come avviene nei momenti acuti della sua malattia. In un altro momento visualizza una scena vissuta come altamente traumatica: dopo un litigio forte avuto con una fidanzata provò un’intensa ‘angoscia di perdita’, sproporzionata all’evento, come lui stesso commenta. Si sentì “disperato”.

Da queste e da altre esperienze risultò che il blocco dell’aggressività gestito con meccanismi retroflessivi, era connesso alla paura di essere abbandonato. L’inibizione dell’espressione si evidenzia in maniera chiara e drammatica attraverso il ricordo di una scena della sua infanzia. Dopo un conflitto con la madre si ritrova da solo nella sua stanza e da solo si consola mentre piange e dice a sé stesso: “Ti voglio bene io, non preoccuparti, non ti lascio solo”.

Non potendo ricevere le carezze che lo sosterrebbero in quel momento difficile, se le dà da sé. Diventa autosufficiente e sopporta stoicamente. Chiuso nel suo silenzio soffre la mancanza d’amore. La madre gli aveva detto “no”. Non lo aveva ascoltato e lui lo intese come un “non esistere” per lei, ma non reagì al rifiuto. Al contrario, bloccò ogni sua reazione terrorizzato dalla possibilità di perdere una mamma alla quale era estremamente legato.

In questa esperienza, che si ripete molte volte nella sua infanzia, sono già presenti gli elementi fondanti del carattere: attitudine a ritirarsi in sé, tendenza a trattenere e soffocare il dolore che nasconde al mondo esterno e che lui solo conosce, sopportazione stoica del vuoto di attenzione e della disperazione connessa. Il sintomo attuale che si manifesta attraverso la progressiva immobilità fisica è la manifestazione di una immobilità psicologica costruita per proteggersi dalla perdita affettiva. Per evitare ancor più questa evenienza che tanto lo spaventa, già da piccolo compie un sacrificio e prende un impegno: “vivrò all’ombra di mia madre“.

Di lei si prende cura e ne diventa il confidente. Si preoccupa che non soffra e a suo modo l’accudisce. Coltiva un’illusione: se riuscirà a far star bene la mamma anche lui ne riceverà qualcosa in cambio. Una paralizzante simbiosi all’inverso. I nuclei cognitivi intorno ai quali si è organizzato il carattere sono congruenti con il sintomo. Il paziente si è convinto che potrà avere uno spazio in questo mondo solo se vivrà all’ombra di qualcuno.

Questa convinzione è sostenuta da un’altra più profonda, un pensiero che c’è dietro: “Nessuno mi vuole, sono così presi dai loro problemi che per loro non esisto”. Da qui discende la decisione: “Mi dovrò adoperare per loro perché si accorgano di me”. Più segreta si nasconde un’aspettativa: “Così anch’io avrò qualcosa in cambio”. Il tutto si condensa in un pensiero: “È  inutile esprimere ciò che voglio, tanto non me lo darete, anzi diventa rischioso”, a cui associa le decisioni: “Meglio che mi ritiro. Non voglio morire ma resterò con il mio dolore, da solo”. E così delinea i tratti principali del suo carattere rinunciatario. Naturalmente avrà altri modi più indiretti e manipolativi per avanzare richieste. L’attitudine di “eroico” far da sé richiamerà la sollecitudine altrui e l’accusa intransigente costituirà il colpo di scena dei suoi giochi psicologici. Ma più drammatico di ogni altro aspetto è il messaggio che parte dal suo corpo che chiede, reclama e soffre.

Apparentemente più fragile, il tipo sociale manifesta in maniera chiara la sua sofferenza. È il Pierrot della Commedia dell’Arte, con la lacrima attaccata al viso, tenero e innamorato. In questa tipologia predominano gli stati depressivi, sembra che la vita sfugga di mano e che non ci sia verso di ottenere quanto si desidera.

Le aspirazioni sconfinano con aspettative illusorie attraverso le quali si alimenta una sottile fiducia, tra tanto pianto, su un possibile futuro migliore. Una paziente quarantenne con corpo e attitudini da adolescente si identifica in Sirenetta, il personaggio della favola preferita da bambina. Sirenetta rinuncia per amore alla sua bella voce e perde la coda per diventare una donna, non importa se poi le gambe acquisite la torturano con dolori lancinanti.

L’obiettivo è l’amore. Sirenetta vuole sposare il bel principe che lei ha salvato durante un naufragio e si affida al sortilegio di una strega per trasformarsi in un essere umano completo. Le viene concesso ma a condizione. Il sogno d’amore non si realizza perché il principe sposa un’altra. Non essendo riuscita a conquistarlo, Sirenetta è condannata a sciogliersi e a disperdersi nelle acque del mare.

Le viene offerta un’alternativa, si salverà a patto che trafigga con un pugnale il cuore del principe. Ci prova, ma al momento cruciale si ritrae, non può uccidere l’essere amato e, per amore: rinuncia a salvare sé stessa. La sua generosità commuove “le figlie dell’aria” che nel momento in cui Sirenetta precipita nel mare la salvano portandola in alto nel cielo. Lì resterà per trecento anni impegnandosi per il bene degli uomini e infine diverrà immortale. La storia è emblematica.

L’amore è al centro della vita della paziente e merita ogni sacrificio, ma questo amore così desiderato non arriva e lei continua a sognare.

La vergogna fa soffrire. La vergogna del rifiuto o di non sentirsi adeguato. Per Ciaikovskij è la vergogna sociale che lo porta al suicidio allorché viene scoperta la sua relazione omosessuale. Nella Sinfonia n. 6, la Patetica, sublima nell’arte la sua esperienza di dolore e di addio alla vita. Ben più forte è il carattere del tipo sessuale. Grandi poeti e artisti lo hanno rappresentato nelle loro opere, spesso riflesso della vita realmente vissuta. Tra i tre sub-tipi è il più aggressivo, più che gli altri si sente defraudato dalla vita e allora lotta per raggiungere quelle posizioni, in famiglia o nel mondo, che ritiene gli siano state negate.

Un esempio drammatico è rappresentato dal Riccardo III di Shakespeare. L’uomo deforme, offeso e reso inferiore dalla natura che cerca la rivincita nella conquista di un regno, macchiandosi del sangue di orribili omicidi che nella sua follia assassina dovrebbero ripagarlo e vendicarlo del torto subito a causa della sua deformità. Uno “sconcio demonio… deforme infezione d’uomo”, così lo apostrofa la donna a cui Riccardo ha ucciso il marito e poi il padre di lui. L’odio incontenibile lo condurrà al compimento del suo destino quando, disprezzato e rifiutato, morirà in battaglia.

Baudelaire provò “l’estasi dei sensi e le orribili apparizioni della noia”. Non ebbe misura. Visse come decise, incurante del giudizio del mondo. Fu pervaso dalla “presenza del male, del dolore, del rimorso… giungeva ad una forma di religione del dolore”. È utile ricordare che la violenza dei costumi e la ribellione sociale nascondono il dolore della fragilità sperimentata a causa di rifiuti precoci.

I giochi del carattere invidioso partono da diverse posizioni e facilmente il tornaconto è fatto di frustrazione e rabbia, sostenuta da convinzioni del tipo: “Non c’è niente da fare, non vogliono darmi quello che voglio”. A volte la convinzione prende sfumature diverse, in quei casi nei quali il giocatore parte da un ruolo di aiuto e sostegno, come a volte paradossalmente avviene con queste tipologie. Sembrano prodigarsi e assumersi il peso della relazione, mentre l’altro non collabora. Di qui la delusione e le possibili reazioni drammatiche. L’invidioso non è né migliore né peggiore di altri tipi psicologici. In ciascuno di essi si presentano vari livelli di gravità e la sola distinzione è nel fatto che i caratteri sono diversi tra loro.

 

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