Pubblicato in: IAT News – Istituto Analisi Transazionale – (Roma) Febbraio 2013 – n. 6.
“L’uomo è limitato e, paradossalmente, il non volerlo accettare gli produce sofferenza: d’altro lato, è proprio la sofferenza che lo spinge alla crescita”.
La struttura che rassicura
Per molto tempo, centinaia di anni secondo alcuni autori di pedagogia, si è parlato di adulto come meta dello sviluppo umano ed educativo. Essere adulto era considerato un punto di arrivo e veniva negata ogni forma di ulteriore modificazione. La parola adulto viene dal participio di adolescere e vuol dire “cresciuto”, fatto grande, persona giunta a completo sviluppo fisico e psichico. Con G. Lapassade, nel 1963, termina il mito di un adulto definito come «un macigno che ha pesantemente condizionato la pedagogia occidentale».
Oggi si parla di psicologia dello sviluppo, corso di vita, cicli di vita e non più di età o periodi rigidamente suddivisi in “compartimenti”. Ne consegue che la psicologia dello sviluppo si riferisce a tutto l’arco della vita, mentre quando si parla di psicologia evolutiva, la crescita psichica è parallela a quella organica, cioè ad un processo di maturazione biologica. Con Lapassade, quindi non da molto tempo, essere giunti al culmine della crescita fisica, non significa avere raggiunto il culmine della crescita psicologica. Ne deriva che l’età adulta non è un “prodotto finito” ma, al contrario, i processi sono in continuo “movimento” durante tutto l’arco della vita. Si può dire che ciascuna fase risponde e si organizza secondo logiche dettate dalle esigenze sia del corpo sia della psiche, adattandosi o resistendo alle nuove necessità. Durante l’infanzia e l’adolescenza prevale la formazione di importanti strutture su cui mettere le basi per un programma di vita, un copione. In età successive gli schemi originari e i modi di utilizzarli vengono elaborati in direzione di ulteriori e diversi adattamenti e possono, con la crescita e le nuove esperienze di vita, assumere forme meno rigide rispetto a quelle necessarie nelle prime fasi dell’esistenza. Inizialmente la ripetitività del modello permette di orientarci rispetto al come stare nel mondo, funge da guida, offre struttura, è rassicurante per la sua continuità e risponde alle richieste dell’ambiente. Permette di esistere e anche di far parte. E’ frutto di un istinto di conservazione che secondo la tradizione della Quarta Via, insegnamento di G.I. Gurdjieff, si trasmette attraverso il cervello arcaico. Come tale ha scopo conservativo e permette la sopravvivenza. La struttura è protettiva e offre nella prima infanzia, ma anche in seguito, riferimenti e linee guida che ci permettono di conoscere e orientarci nel mondo. Sono protocolli copionali che costituiscono un sostegno certo e contengono, anche se in seguito riadattati, gli stimoli che vengono dal mondo dei grandi, cioè, come ci insegna Berne, i messaggi incorporati. Di solito assumono anche carattere difensivo, diventando introiezioni di realtà esterne che non possiamo assimilare, fare nostre, ma neanche espellere. Lascerebbero un vuoto. Infine promuovono visioni del mondo e comportamenti che tendono a stabilizzarsi e a persistere anche quando non più congruenti con le realtà effettivamente vissute, replicandosi in maniera automatica e ripetitiva.
Quando la paura, ad esempio, diventa un’emozione dominante, aumenta il bisogno di certezze. Ci si limita nell’azione, paralizzati dal dubbio, non si guarda alle alternative, c’è troppo rischio, e si forma un carattere fobico – evitante. L’eccesso di struttura soffoca i potenziali creativi e le risposte che si danno a stimoli interni ed esterni sono sempre le stesse, quelle già note. Fisiologicamente si sono formate catene neuronali, depositi di memorie, dapprima appena abbozzate e poi rafforzate dall’accumulo di risposte ad uno stesso stimolo, sempre uguali a se stesse, che così diventano comportamenti stabili nel tempo. Questo è il modo in cui si organizza in generale la rigidità e l’automatismo del carattere. Con la crescita e lo sviluppo verso la maturità, programmi così rigidamente costituiti, se seguissero la loro naturale evoluzione, avrebbero meno necessità di continuare ad esser tali. Ma la struttura cognitivamente fissata e passionalmente alimentata, continua a seguire le tracce abituali, come nell’ esempio sopra accennato.
In maniera provocatoria a volte parlo dell’uomo marionetta e spesso, lavorando con il Teatro Trasformatore, riporto l’esempio dei caratteri della Commedia dell’Arte. Arlecchino, Colombina, Pantalone, possono cambiare i loro discorsi, gli ambienti, le relazioni, ma sostanzialmente il costume, le forme espressive, la gestualità, i toni e le cadenze, restano sempre gli stessi. Il carattere non si modifica e di conseguenza neanche il copione che lo sostiene. Quindi le persone continuano a comportarsi, indipendentemente dall’età, sempre più o meno alla stessa maniera, anche se non serve più, anche se diventate più mature, più adulte, anche se hanno avuto tante esperienze. E’ difficile lasciare gli schemi profondi che guidano l’esistenza.
Riflessioni sull’adulto e i suoi possibili sviluppi
Freud definiva la condizione adulta come quella in cui si è in grado di amare e lavorare. Certamente ci sono svariati altri fattori che fanno un adulto o la persona che cresce. In ogni caso apprendere ad amare e impegnarsi nel lavoro, soprattutto se quello che si fa lo si è scelto e piace, aiuta a crescere. Altri autori definiscono un adulto come una persona che è in grado di far fronte alle difficoltà e sa adattarsi. Altri ancora parlano di autonomia, indipendenza, stabilità e dicono che l’adulto ha equilibrio ed è in grado di sostenere il cambiamento. Gould e Levinson fanno una ricerca approfondita sulle diverse fasi dell’età adulta o matura. Individuano una mezza età, 45/65 anni; parlano di anziani, fino agli 80 anni e di grandi anziani, dagli 80 in poi. Non si parla di vecchi. E’ interessante vedere l’evoluzione che ebbe Piaget circa l’età matura. Nelle sue prime ricerche il “tetto evolutivo” era raggiunto con l’adolescenza, dopo questa epoca della vita, non si sarebbero più create strutture cognitive (1955). Lo sviluppo si concludeva con il raggiungimento delle strutture logiche necessarie al processo formale. In seguito, dopo diversi anni, parlò dello sviluppo “come di una continua dinamica costruzione di strutture”(1975). “Un modello a ventaglio aperto”, si disse. Il pensiero si può espandere in più direzioni e con modalità diverse. Quindi le strutture cognitive possono cambiare. In seguito si parla di processi di strutturazione nell’adulto. Questo permette di specializzarsi in varie aree. Per Bassechez e Koplavitz (1984), “i problemi di vita reale con cui si misura l’adulto, appartengono a sistemi aperti, interdipendenti e in continua trasformazione, e non a sistemi chiusi”. Parlano di esperienza di contraddizione, le scelte possibili sono molte, con una loro coerenza interna, “ma in reciproca opposizione”. Potremmo definirle delle polarità conflittuali.
E ancora, Labouvie – Vief (1982) parla di “relativismo logico” e afferma che “la progressiva inclusione di incertezza nel proprio programma logico è il meccanismo attraverso il quale procede lo sviluppo”. C’è stato un notevole cambiamento nella riflessione dei pedagogisti che cedono il passo alla possibilità e all’incertezza, a fronte delle vecchie definizioni che vedevano l’adulto fissato inesorabilmente ad una certa età, senza più possibilità di evoluzione. A partire da quanto precede, che riporto per tener presente il percorso della ricerca sul tema evolutivo negli ultimi decenni, gli autori più vicini all’Analisi Transazionale, ritengo possano essere gli ultimi citati. Mettere “incertezze” nelle strutture copionali in diverse fasi di vita, congruentemente con quanto lo sviluppo naturale prevede, produce cambiamento. In genere in una fase matura dell’età adulta, dai 30/40-45 anni, chi è più attento alla conoscenza di se stesso guarda ai significati più profondi della vita, tende a perdere la fissità dello schema e il copione incomincia a vacillare. La fame perde forza e la struttura non è più così condizionante da venir vissuta come una protezione per l’esistenza, e così diminuendo queste necessità passano in secondo piano l’istinto conservativo e le paure connesse, e cresce la disponibilità a rischiare nuove vie, perlomeno idealmente, perché nei fatti le cose vanno in maniera diversa.
In ogni caso, seguendo la natura, con il crescere dell’età dovrebbero aumentare l’autonomia e allo stesso tempo la consapevolezza della finitezza dell’essere umano. Quando questo non succede, non è perché lo sviluppo dell’uomo si ferma definitivamente ad una certa età, come si pensava, ma piuttosto perché si preferisce nascondere a se stessi, anche se note, le verità sulle leggi dell’esistenza che procurano dolore e paura. Si produce una forma di pigrizia dello spirito, un dimenticarsi di sé, che intorpidisce l’animo. Al contrario, quando il pensiero della morte diventa più presente e si incrina l’aspettativa magica per la quale, pur sapendo che succederà, ci comportiamo come se toccasse solo agli altri e mai a noi, allora è più facile rendersi conto che di fatto la vita è sempre sospesa ad un filo e la fine può avvenire anche tra poco. Dimenticandolo si ha l’illusione che si viva meglio.
Ma è solo con l’accettazione della nostra finitezza che si aprono spazi per una maggiore flessibilità e per una maggiore pienezza di esperienza, favorita da un certo distacco dalla quotidianità e non dalla voglia di possedere persone perché si ‘amano’, o avere cose perché soddisfano e rassicurano. Niente nella vita ha valore assoluto, i fenomeni sono mutevoli, precari e relativi. Comprenderlo ha come effetto che ci si apre alla creatività, aumenta la capacità di scelta e si scoprono le alternative. Ma tutto questo non avviene per caso. Ci vuole impegno e coraggio, bisogna “correre un rischio”, come diceva F. Perls. Il limite che le persone si danno ha una propria linea di confine, oltre la quale non si va. Quello che c’è al di là è lo sconosciuto, e spesso la fantasia sul cosa si possa trovare dall’altra parte, è catastrofica. Quando si va oltre il confine, anche se simbolicamente rappresentato, come si fa in alcune esperienze terapeutiche, magari tracciando una linea da poter superare, è facile scoprire che il pericolo immaginato era frutto di pura fantasia. Compiendo un’azione, mai sperimentata prima, è possibile incontrare il nuovo e recuperare capacità adulte, rischiando, ma in maniera protetta.
La giovinezza e la virtù dell’amore
Le prime basi della maturità trovano le loro radici nella fase precedente, nella giovinezza, secondo D. J. Levinson tra i 20 e i 30 anni, epoca in cui aumenta l’autosostegno, crescono l’autonomia e la capacità di fare da sé. Il giovane è più centrato dell’adolescente. E’ più in contatto con il mondo adulto e mette da parte l’atteggiamento critico e conflittuale fine a se stesso. In verità questo passaggio da adolescenza a giovinezza oggi avviene anche in età più avanzata.
Le richieste della società post moderna, sia in termini affettivi che in termini di preparazione al mondo del lavoro, producono una dipendenza dalla famiglia più prolungata nel tempo. In ogni caso, in questo periodo aumenta l’autonomia di pensiero e la capacità di guardare la realtà alla propria maniera. Quello che il giovane pensa, le sue idee e le sue visioni del mondo, sono frutto di maggiore consapevolezza e di confronto. Si ascolta di più l’altro e diventa più presente il desiderio di un partner stabile. Agli innamoramenti adolescenziali subentrano delle esperienze affettive mirate a instaurare una vita di coppia. E. Erikson, ritiene che nella giovinezza ci sia il pieno sviluppo dell’Io, in pratica della propria identità. Ci si chiede: ‘io chi sono’. Al di là dei messaggi di copione, i ‘devi’, i ‘non’ e i ‘modelli’ che lo strutturano, si incrementa la capacità di assimilare la realtà e di farla propria, indipendentemente dai messaggi incorporati dal bambino.
Con lo sviluppo dell’identità aumenta anche la capacità di amore verso l’altro. Sempre secondo Erikson la giovinezza è l’età in cui oltre a svilupparsi pienamente l’Io, emerge la virtù dell’amore. Nelle tradizioni spirituali si parla di amore altruistico, la compassione, che permette alti livelli di crescita, fino all’autorealizzazione. L’amore è strettamente connesso con l’intimità, che secondo Berne è un fattore per l’autonomia. Erikson la contrappone all’isolamento, che per Berne, è una maniera per strutturare il tempo, quindi, a differenza dell’autonomia, una forma rigida di organizzare l’esistenza. Trattando di amore, non ci riferiamo soltanto all’amore di coppia o verso i figli o i genitori, ma in maniera più ampia e secondo la visione gestaltica mutuata da M. Buber, anche all’amore compassionevole, quello verso l’altro in generale, quando l’altro diventa un tu. Nella definizione di Erikson, l’intimità “prevede di accettare una parziale fusione con l’altro, senza temere la perdita della propria identità”. In pratica si mantengono i propri confini, senza finire nella confluenza, e si conserva la capacità di separarsi e di operare scelte. La persona capace di intimità può accettare la differenza perché non si sente minacciata, ha già un suo modo di essere e può rischiare di fluire con l’esperienza. Può stare con quello che è senza forzare la realtà per costruirsi certezze a sua misura. Al principio dello sforzo subentra quello dell’accettazione. A fronte degli sviluppi indicati non bisogna dimenticare che si tratta di primi contatti, che porteranno frutti più stabili con la maturità, altrimenti si coltivano illusioni. E’ un po’ come assaporare il nuovo sapendo che il copione ha ancora forti radici che legano al passato. D’altro lato le potenzialità scoperte e le competenze che si vanno acquisendo possono crescere e dare frutti. Al di là dei conflitti e del perenne dualismo che caratterizza la nostra esistenza, i giovani sono più aperti al nuovo e nel mondo del lavoro spesso ricoprono ruoli di responsabilità e d’altro lato la loro dipendenza, come già visto, si prolunga nel tempo e la loro energia viene frenata.
L’importanza di una guida
Levinson ritiene che nell’età giovanile siano importanti quattro fattori: trovare un consigliere, intraprendere una carriera, stabilire relazioni intime, avere un sogno. Guarderò solo ad alcuni di questi punti per qualche commento. Partendo dall’ultima proposta, l’idea dell’autore è che un sogno anche se irrealizzabile è capace di dare una spinta, un’energia per raggiungere risultati. Ha una funzione motivazionale e poi con il tempo si troverà anche la forma più realistica per ottenere risultati concreti. Per Berne affidarsi ai sogni è un po’ come perdersi negli ideali e quindi stare nel mondo delle illusioni. Diversa è invece l’aspirazione, che consente di mantenere i piedi per terra e di produrre effetti reali, se c’è un impegno. Comunque, che sia sognare o aspirare, ai giovani occorrono stimoli che aprano orizzonti, e permettano di guardare avanti, piuttosto che starsene inerti a galleggiare nella vita. In questo senso la nostra società è carente, l’educazione scolastica è carente. Sono davvero pochi gli stimoli che danno senso e portano valori.
Manca nel mondo dell’istruzione un’educazione all’affettività e all’importanza della crescita interiore. Ciò che conta è formare persone che funzionino per fini produttivi, in una società che mira essenzialmente al potere economico e all’affermazione sociale. Andiamo ora al primo fattore che Levinson propone come importante per i giovani: trovare un consigliere. E’ utile avere un maestro, una guida o un terapeuta, un ponte tra i genitori ed altri adulti con i quali apprendere a sviluppare relazioni paritarie per entrare nel mondo dei grandi. In generale i giovani vengono lasciati a se stessi e spesso si perdono, magari in un clima di competizione o nelle frustrazioni, che infine portano alla rinuncia. Parafrasando un po’ Levinson immagino il maestro, la guida, come una figura genitoriale che, alternativa a quella reale, possa rispondere a un insieme di necessità e bisogni che non furono assolti dai genitori naturali. Una persona dotata di sufficiente distacco e assertività, ma anche affettiva e accogliente. Levinson ci ricorda anche che quando c’è un rapporto con un consigliere, mentore, o terapeuta dico io, spesso si finisce con una rottura. Le motivazioni sono tante. Tuttavia, ciò che importa è che pure una separazione traumatica può essere un momento di crescita, sia per il giovane che per il paziente, ma anche per chi ha svolto il ruolo di guida.
In questa epoca storica la figura più vicina a fare da mentore sembra sia proprio quella del terapeuta, inteso non solo come colui che cura sintomi e situazioni problematiche, ma anche come qualcuno capace di guidare verso una ristrutturazione profonda della persona, che comprenda una crescita dell’essere, fondata su valori esistenziali e spirituali. Spesso i terapeuti di AT ma anche di Gestalt disdegnano la visione di scuole che si aprono ad un approccio che includa anche aspetti spirituali nella terapia. Questi temi peraltro sono da tempo già presenti anche in AT. Si confonde spiritualità con religione. Spesso sento dire: “Ma noi siamo clinici non ci competono queste tematiche”, in nome di una ortodossia che francamente sento fuori tempo. Clinica e sviluppo personale non sono mai stati in conflitto, è sempre più utile trovare integrazioni che tendano ad unire piuttosto che a settorializzare. Ritengo che questo passo ulteriore dovrà caratterizzare l’età più matura, anche della terapia.
La virtù del prendersi cura
Levinson mette l’età matura tra i 30 e i 45 anni. E’ su questa fase che voglio focalizzare la mia attenzione. L’autore ritiene che sia il periodo in cui si dovrebbero portare a termine i principali compiti evolutivi. Sono anni in cui si raggiungono risultati in campo affettivo, relazionale e lavorativo. Secondo Erikson è il periodo della procreatività o generatività, mentre la fase precedente è soprattutto legata alla genitalità. Si è più pronti ad assumere responsabilità verso gli altri in generale e non solo verso i bambini. E’ una generatività intesa in senso ampio, espressa non solo diventando madre o padre, ma anche nel dare vita, in vari campi, a idee, opere d’arte o impegno sociale. A me sembra che in queste fasi, quando il processo di crescita segue uno sviluppo naturale e non viene interrotto da rigidità copionali, che ancora insistono nel determinare visioni e comportamenti, si affievolisca il bisogno di stimolo o riconoscimento e che si sviluppi in senso più arricchente l’istinto sociale. Un istinto che porta a guardare l’altro, non per ottenerne vantaggi personali ma per un più soddisfacente desiderio di relazione e condivisione.
Gli autori, relativamente a questo periodo, parlano del raggiungimento di una completa autonomia. Ritengo che si tratti comunque di un’autonomia limitata, sono ancora molti i condizionamenti anche nell’età matura. I freni per raggiungere un reale distacco vengono ancora da tante dipendenze, non solo affettive, ma anche legate a necessità e bisogni, spesso costruiti, e quindi superflui, frutto di una cultura dominata da principi mercantili. L’autonomia si perde anche quando si è coinvolti nella competizione e nella voglia di affermarsi o in interessi legati al potere e al prestigio.
Tutto questo produce dipendenza. L’autonomia economica o organizzativa poco ha a che fare con quella alla quale fanno riferimento l’AT e la Gestalt, per le quali è autonoma la persona che ha raggiunto risultati relativi ad una crescita interiore ed anche a livello sensoriale, emotivo e cognitivo. Accanto alle nuove capacità di realizzare progetti già avviati, di essere genitori, di affermarsi nelle professioni, Erikson, oltre a quella dell’amore, dà spazio ad un’altra virtù, quella “del prendersi cura” che si manifesta nell’ “accudimento di persone e cose”, ma anche di idee. Accanto al prendersi cura è frequente un altro fenomeno, che Erikson considera il suo contrario e definisce stagnazione. Una sorta di concentrazione narcisistica che porta ad una esagerata preoccupazione per se stessi e a situazioni di falsa intimità. Ciò che più conta è affermare la propria immagine. Si è molto focalizzati su di sé e poco disponibili verso gli altri, o ad occuparsi della crescita e del miglioramento della società. Ci sono fissazioni copionali ancora molto attive e quello che è un naturale istinto sociale, aprirsi all’altro, continua ad essere soprattutto una fame, una fame di riconoscimento e quindi un insieme di falsi bisogni, egoicamente centrati. Per il bambino il riconoscimento è stato per un tempo una necessità vitale, gli è servito per poter dire: ‘ci sono’. Se questa attitudine permane al tempo della maturità, è il risultato di una deviazione parassitaria verso un surrogato che possiamo definire passione di vanità, di chi, per antico retaggio, ancora si spende solo per esser visto.
Crisi e nuove possibilità
E poi segue la crisi di mezza età. E’ difficile definire i suoi tempi. Si parla di un’età tra i 35 e i 40 anni, ma anche di una tra i 45 e i 50 anni. Levinson, in particolare, si focalizza su due periodi, 40, 45 anni, ma anche 45, 50 e 45, 60 anni. La mezza età è strettamente connessa alla fase della maturità ed è difficile definire i confini tra un tempo e l’altro, varia molto da individuo a individuo. Ancora Levinson divide il periodo dai 40 ai 50 anni in due fasi distinte. La prima fase, 40-45 anni caratterizza un momento della vita in cui vengono messe in discussione le proprie aspettative, i valori, e le relazioni affettive. Si fa un bilancio, ci si chiede cosa si è realizzato e cosa resta ancora da fare. Sono anni che spesso coincidono con la separazione dai propri figli. La seconda fase, 45-50 anni, è un tempo di crisi manifesta, si profila una discesa, un declino, fenomeni che possono anche favorire la crescita personale. Si possono consolidare le relazioni e la coppia si evolve verso forme amorose meno appassionate ma più mature, grazie ad una reciproca comprensione e accettazione dei limiti, sempre presenti nei rapporti umani.
E’ un passaggio importante. Diminuisce la conflittualità. D’altro canto è anche un tempo in cui i legami si rompono definitivamente. E’ più frequente la perdita di persone care o a noi vicine e sempre più si assiste al decadimento fisico degli anziani. In sintesi si prende più coscienza della finitezza e della precarietà dell’esistenza umana. E’ facile entrare in stati depressivi, di incapacitazione o sfiducia, fino alla disperazione. Si chiede aiuto, si ricorre ai farmaci e più di rado alla terapia. C’è chi reagisce e copre la sofferenza interna con maggiore attivismo, dandosi sempre più impegni, e magari realizzando qualcosa di nuovo. E’ un atteggiamento che può essere utile, a volte davvero dà spazio a nuove visioni. Ma più spesso è solo una reazione difensiva che allontana dal farsi domande più profonde su se stessi e sul senso della propria esistenza. In questa epoca di crisi, che in modo diverso colpisce uomini e donne, in maniera implicita o esplicita, si mette in discussione la propria vita e a volte si regredisce anche assumendo comportamenti adolescenziali. Si imitano i figli: innamoramenti, trasgressioni, ribellione, ma dietro c’è sofferenza.
E’ da questo star male che può nascere il nuovo. Può essere un’epoca di trasformazione che porta dalla crisi ad una più profonda maturità. Nella disperazione si perdono i riferimenti, c’è bisogno di aggrapparsi a qualcosa o qualcuno. Paradossalmente aumenta la creatività e la capacità di guardarsi dentro e forse anche di scoprire i molteplici potenziali che si nascondono nei meandri della coscienza, oscurati dalla cecità dell’ego che si è impegnato solo in poche direzioni, molto poche, e sempre uguali a se stesse. E’ possibile nel tempo dello smarrimento aprirsi ad altre realtà che infine vengono alla luce, magari insospettate. L’intero copione entra in crisi. Anche in questa fase è importante la presenza di un mentore, un maestro, un terapeuta. E’ il momento della vita, anche se gli anni di riferimento sono cambiati, che corrisponde a quello che Dante definiva con i versi: “Nel mezzo del cammin di nostra vita mi ritrovai per una selva oscura”.
E’ da lì che iniziò il suo viaggio di conoscenza. La sua guida fu Virgilio. Molti artisti, Mozart, Modigliani e altri, sono morti intorno a questa età, dopo aver realizzato grandi opere d’arte e dopo aver vissuto molta sofferenza. L’esistenza umana si è interrotta ma la loro ricerca interiore è stata sublimata nella bellezza della loro arte. Simon De Beauvoir nella sua fase di crisi così si racconta: “Mi sembra di non avere più niente da fare … adesso lavorare a maglia, cucinare, leggere, ascoltare un disco, tutto mi sembra inutile. L’amore di Maurizio dava un’importanza ad ogni movimento della mia vita. Adesso è vuota, tutto è vuoto … il mio errore più grande è stato di non capire che il tempo passa”. Le cose cambiavano e lei continuava a restare legata all’immagine giovanile del suo uomo, alla sua casa, alle sue bambine e così via. Nella mezza età comincia a profilarsi la fine del cammino. Il corpo cambia e così le prestazioni fisiche. Anche la mente diventa meno lucida. C’è una sindrome da nido vuoto quando i figli se ne vanno e dà sofferenza, senso di perdita, non si sa che fare. E’ il tempo del climaterio, maschile e femminile. Proprio in contrasto con questo può emergere dallo sfondo la polarità nascosta, una spinta per nuove esperienze e nuova vitalità.
Evoluzione dell’adulto che matura
Tutto quanto precede è una sintesi di come si manifesta un adulto che matura e delle sue forme di crisi. Mi sono ispirato ad autori specialisti in psicologia dello sviluppo e a mie elaborazioni personali. Ora voglio dedicarmi a cosa sarebbe utile per un adulto affinché superi i momenti difficili e continui ad evolversi. Nella prefazione ad un testo di M. L. De Natale si legge: “L’Unesco raccomanda l’educazione dell’adulto per costruire un dialogo per una cultura di pace”. E poi sottolinea: “E’ un concetto potente per incoraggiare lo sviluppo ecologicamente sostenibile, per promuovere la democrazia, la giustizia, la parità tra i sessi e lo sviluppo sociale e per costruire un mondo … in cui il conflitto violento sia sostituito da una cultura del dialogo”. Ma nulla dice su cosa si intenda per educazione dell’adulto. Secondo la pedagogia occorre mettere in discussione: “Stili cognitivi, relazionali, affettivi, comportamentali, convinzioni e orientamenti valoriali che alimentano la personalità adulta”. Ha senso.
Dal nostro punto di vista sarebbe come dire che per educare un adulto come primo passo occorre rimettere in gioco la propria organizzazione copionale, che contiene e porta avanti un modello esistenziale fissato nel tempo, con matrici organizzate sulla base di una visione infantile. Sono programmi legati al passato, incongruenti con il qui e ora, che vanno aggiornati secondo le necessità e l’emergere di temi esistenziali tipici dell’età matura. La crisi si propone come guida. Suggerisce che è tempo di guardare ad altro. Abbiamo scotomizzato o svalutato le domande sul chi sono, sul senso della vita, non abbiamo ascoltato il sé sottile, quello profondo, che comunque è parte fondante della nostra coscienza. E poi viene il momento in cui questa coscienza chiede attenzione, reclama spazio.
L’equilibrio abituale è rotto, ora c’è qualcosa da cambiare. Se gli si dà voce, allo sconosciuto che si nasconde dietro il malessere, oltre alle storie già note sulla madre carente o il padre severo, che facilmente vengono in primo piano, è possibile scoprire insoddisfazioni di altro genere, che riguardano il significato e il valore dell’esistenza. I vecchi messaggi di copione perdono sempre più senso. La realtà dell’oggi, il qui e ora è altra cosa, e già da tempo. Se ci si guarda un po’ dentro è evidente che è tutta un’altra storia. L’età matura è il momento di dare spazio a quanto di sconosciuto appartiene all’essere. Il richiamo, come per la nevrosi, si presenta sotto forma di sintomi di ogni genere e anche se si tratta di aspetti più sottili, possono manifestarsi nel corpo. Fanno male e tuttavia sono forme creative, come insegna la Gestalt. Contengono in sé la soluzione. Bisogna solo apprendere ad interrogare il sintomo e poi ascoltarlo. Quando ci parla, chiede di percorrere altre vie e sempre propone alternative che spingono ad esperienze di vita più vicine alla spontaneità naturale. Quando si sa cosa manca per chiudere la Gestalt, allora bisogna passare all’azione e ci vuole coraggio, ma anche la curiosità del bambino che esplora alla ricerca del nuovo.
La crisi richiama a cercare il senso delle cose e questo include il guardare in maniera più realistica alle effettive necessità. Forse è tempo di un viaggio interiore che dia spazio a visioni, comprensioni e valori che siano più coerenti con i processi di crescita di un uomo che si evolve. In questa direzione non c’è, come già visto, il conseguimento di un risultato che rappresenti la fine della maturazione o la formazione ultima di un adulto, per il quale non ci sono spazi ulteriori. La crescita effettiva non ha termine. Ma l’atteggiamento della cultura comune, non ha questa apertura. Si considera normale il degrado e lo svilimento cui sono soggetti i vecchi del nostro tempo. La persona, anche attraverso una forzata sopravvivenza fisica, magari grazie alla tecnologia della salute, di fatto perde valore e dignità. Ma questo è frutto di una resa, frutto di ignoranza direbbe il saggio.
Il potenziale di crescita non si spegne per decadimento fisico quando si coglie l’essenza dell’essere e l’intera vita può essere dedicata alla propria evoluzione. Come analisti transazionali siamo anche figli del periodo degli anni 60’ quando ci fu una grande attenzione agli aspetti umanistici della psicologia. Si parlava di sviluppo del potenziale umano. E. Berne e F. Perls, pur non facendo direttamente parte di questo movimento, ne furono entrambi influenzati. Il fenomeno si respirava nell’aria e tutta la cultura del tempo ne assorbì i valori. E poi ci fu di nuovo la caduta. La estrema professionalizzazione della terapia ha stabilito tante regole, tanti schemi, tante metodologie e tanti copioni sul cosa si deve fare. La spontaneità creativa, la capacità di stare come persona con la persona nella relazione terapeutica, ha perso centralità. Per fortuna non per tutti.
La Teoria del Copione o degli stati dell’Io, dei Giochi o delle Transazioni non permettono di trattare le svariate necessità e problematiche di fronte alle quali si trova un terapeuta del nostro tempo. Berne e diversi suoi successori hanno preferito non guardare ai valori dello spirito. Questo interesse profondo, sepolto sotto tante sovrastrutture nevrotiche, viene molto prima della sua negazione o della sua banalizzazione in forme religiose prive di un vero sentire. Le strutture copionali sono frutto di adattamenti che provengono da un accordo tra mondo interno e mondo esterno. Sono risultato di tante voci che nelle diverse fasi evolutive hanno avuto spazio nella dura lotta tra un Super Io che domina e un bambino naturale sopraffatto da una cultura nemica della spontaneità, degli istinti e del piacere, a favore dei devi genitoriali e culturali. Sono i principi fondanti della ricerca di Freud. Nella vita di ciascuno di noi ci sono tanti padroni che oscurano la matrice originaria dell’essere. Questo avviene a livello della quotidianità, quello che il Buddhismo definisce la dimensione relativa, che si contrappone agli aspetti più profondi dell’esistenza, alla ricerca del chi sono e al mistero dell’origine stessa della vita. Il più delle volte l’esperienza spirituale viene descritta nei termini di una incomprensibile filosofia, e diventa oggetto di discorsi colti che non hanno effetti concreti e quindi non insegnano nulla.
Basicamente tutti seguiamo un istinto conservativo e a fronte di conflitti o pericoli scegliamo la protezione dell’esistenza e la valutazione è fatta da un piccolo adulto creativo che si chiede: “Come ottengo il maggior vantaggio con il minor rischio possibile?” e opera una scelta, che poi verifica e, se funziona, la ripete e la ripete, fino a che resta fissata nella coscienza e come già visto in specifiche fasce neuronali, che in maniera automatica si riattivano ogni volta che serve. Naturalmente in questo caso, dietro la scelta ci sono un insieme di reazioni e comportamenti interconnessi. I nuclei di copione sono il risultato tradotto in schema di un grande gioco di equilibri. La mente organica sosterrà il sistema psichico dando vita ad una unica organizzazione. Ma quando le fasi dello sviluppo, infanzia, adolescenza, giovinezza sono trascorse e subentra il tempo della maturità allora sono altre le esigenze, meno note e comprensibili di quelle delle epoche precedenti. Come già detto le domande sul senso dell’esistenza si fanno più pressanti. Anche in epoche anteriori ci sono state, è ovvio, caratterizzano l’essere umano. Ma con la maturità, espresse o no, si fanno più incalzanti e cresce l’ansia di risposte.
Verso la maturità
La crisi della maturità è stata più volte trattata nella letteratura e vissuta da molti grandi artisti. Uno dei maggiori esempi è la Divina Commedia in cui Dante, a metà della sua vita, si ritrova in un inferno, nel quale entra in contatto con stati di coscienza, i vizi capitali, che governano la vita umana. Per uscire dai limiti che non permettono di accedere ai livelli superiori, bisogna conoscerlo questo inferno e sperimentarlo.
Dante ebbe come vizio o passione dominante, come preferiamo dire nella cultura della psicologia degli Enneatipi, quello dell’invidia, che lo teneva perennemente in contatto con la sua carenza, con ciò che manca, che da un lato costituisce motivo di sofferenza e dall’altro stimola la ricerca di nuove possibilità e permette di raggiungere, nel suo caso, qualcosa di più santo, fino alla contemplazione del divino, perlomeno nella sua opera. Alla fine del viaggio c’è il Paradiso. Gli stati infernali sono forme di essere e comportarsi che tutti gli umani condividono, più specializzati in una o in altra condizione. Danno vita a copioni ripetitivi, strutture fondate su passioni e fissazioni relative a nove tipologie basiche, nove caratteri che guidano le nostre esistenze, e assumono ulteriori connotazioni secondo che seguano l’istinto conservativo, sociale, o sessuale, dando vita a 27 sub-tipi. Poi viene la purificazione, il purgatorio, uno stato in cui si incontrano le virtù, forme meditative che attraverso l’assimilazione di parole guida sostengono il cambiamento secondo direzioni non preordinate ma virtuosamente raggiunte. E infine il paradiso, luogo dove si giunge per distacco dal mondo delle passioni e si assurge alla contemplazione del divino e alle forme ultime dell’amore compassionevole.
E’ il viaggio che, con le debite differenze, propone anche la cultura dell’Enneagramma, che sembra influenzò lo stesso Dante. Dalla crisi, quindi, si trascende a livelli più alti di coscienza e matura l’amore. L’eterna sofferenza per le carenze infantili vissute in un passato che non c’è più e che oggi danno vita alle forme di nevrosi più disparate, si trasforma. All’amore per sé, l’amore egoico, tutto centrato sul ricevere, comincia a subentrare l’amore compassionevole. E’ l’amore per il quale il centro diventa l’altro e l’“Io” va sullo sfondo. Paradossalmente soddisfa di più. Ma non è tutto, il viaggio verso la propria realizzazione è complesso. Miti, illusioni, principi e comportamenti che hanno guidato l’esistenza, incisi nella nostra storia e nella nostra genealogia, valori portanti della cultura, secondo Freud frutto di una “civiltà” condizionante, nella maturità subiscono uno scossone. Perdono credibilità e non hanno più senso. Subentra incertezza e smarrimento. A cosa credere, a cosa dare valore? Diventa più incalzante, implicita o esplicita che sia, la domanda sul “Chi sono?”.
Cadono i riferimenti e le certezze ad attaccamenti e bisogni che hanno stabilmente guidato la vita. Tutto diventa più effimero. Si fa più presente il timore della morte ed è più viva la consapevolezza di quanto ogni cosa sia destinata a finire. Il Bhuddha parla di impermanenza e per la psicologia buddhista questo principio è centrale. Ci si rende conto che ogni cosa che si è fatta, che si è costruita, finirà o è già finita. Per un tempo lascerà dietro di sé il ricordo e poi più niente, il vuoto. Angoscia? Depressione? Panico? E chi sono io? Dove finisco io? Non c’è risposta. E’ l’angoscia esistenziale di Sartre, per il quale il vuoto è un nulla, un non essere. C’è da lavorare per afferrare il senso. Che senso ha questa vita? E’ solo esercitare un mestiere, produrre, sopravvivere, affermarsi, essere riconosciuti? Soldi, casa al mare, vestiti? Il potere? O soddisfare l’uno dopo l’altro catene di bisogni che non si esauriscono mai, perché sono falsi bisogni? Certo, l’amore. Sembra il toccasana che non arriva mai. Ma quale amore? Quello al quale generalmente si pensa è sempre un amore egoistico, ci si avvale di ogni forma di manipolazione per ottenerlo e alla fine non soddisfa, resta sempre una carenza. Ancora più difficile è darlo questo amore.
Spesso è frutto di falsa bontà e lo si dà per ottenere qualcosa, non è amore gratuito. Forse lo si dà per ricevere riconoscimento o gratitudine. E dov’è l’altro? Ben venga allora la crisi, ci dice che il desiderio non sarà appagato, è una mancanza d’essere quella che fa soffrire, il “chi sono”, e la risposta viene da una effettiva conoscenza di sé. Jung parla di un “bambino divino”, sepolto nella coscienza che non riesce a riemergere. In fondo anche Freud si riferisce a questo quando parla di un Super Io dominante che reprime la naturalezza, l’istintualità, di cui il bambino è portatore, a cui Berne ha dato uno spazio specifico nell’organizzazione della personalità. E’ una funzione molto importante che spesso viene oscurata dalla intellettualità razionale. C. Naranjo lo assimila al principio dionisiaco, che manifesta la spiritualità attraverso il piacere, frutto di un principio vitale, eros, che trascende la sessualità e dà sapore alla vita. È quanto propose nel mondo della terapia la Gestalt di F. Perls. Dare spazio alla spontaneità creativa e alla trasparenza, come antagonista di un Super Io repressore, che impone e castiga, il Top Dog. Naranjo, dal canto suo, fa riferimento al Piccolo Principe di Saint-Exupery, nel suo lavoro El niño divino y el héroe. Ricorda che il principino si sente soddisfatto e felice quando può bere l’acqua fresca di un pozzo al termine di un lungo viaggio di esperienza e scoperta e coglierne l’unicità al di sopra ogni cosa. Questa è una via diretta per giungere alla conoscenza. Al contrario, il cammino dell’eroe, segue la via dello sforzo, come Gilgamesh o Mahabharata ad esempio, che cercano la loro realizzazione nelle grandi imprese. Rischiano la vita, sfidano mostri e infine sconfiggono il drago.
In questo caso il viaggio è più lungo. Sono vie differenti e anche se con tempi diversi, entrambe portano a risultati.
Il programma SAT
I programmi SAT, creati da C. Naranjo e oggi diffusi in molti paesi del mondo, sono particolarmente congruenti con il nostro discorso. Si rivolgono allo sviluppo della conoscenza di sé, attraverso un insieme di ingredienti che vanno dalla terapia alla meditazione, con attenzione al corpo, all’energia e alla mente. Il programma si svolge attraverso moduli residenziali di nove giorni ciascuno, secondo un modello che si sviluppa negli anni in un clima in cui, tra l’altro, vige la trasparenza e la spontaneità.
Tante persone si incontrano e apprendono a darsi sostegno reciproco, alla pari, guidati da esperti supervisori, condividendo l’interesse per la crescita personale e praticando modalità più vere e autentiche di stare insieme. Attraverso esercizi di consapevolezza e utilizzando tecniche terapeutiche adeguate, si scopre come funziona il proprio mondo interno e i modi di entrare in relazione con gli altri. E’ centrale il lavoro sul proprio carattere e sulle forme copionali che lo sostengono. La maggiore facilità dei rapporti e l’accettazione reciproca, favoriscono la caduta delle difese e permettono di guardare a nuove maniere di stare al mondo e soprattutto a metterle in atto. Tutto ciò è facilitato da una cultura dell’accoglienza e del rispetto per la diversità.
Il SAT è un percorso di conoscenza e di sviluppo continuo che, dalla presa di coscienza delle limitazioni passionali, crea attaccamento alle proprie posizioni esistenziali, guida verso gli aspetti più sottili della coscienza. Ossia, detto in altri termini, all’incontro con la pienezza della propria natura originaria, difficile da descrivere in parole, ma che si può sperimentare. E’ questo l’oggetto di una ricerca spirituale, incontrare la propria essenza. Un cammino che dà forza e fiducia grazie alla scoperta che si possono incontrare livelli più evoluti del proprio sé, non soggetti alla mutevolezza della quotidianità. Questa consapevolezza sostiene, permette di andare avanti e di affrontare i tempi di crisi, come ad esempio le fasi della maturità. A questo scopo, sono fondamentali quegli insegnamenti che vengono da antiche tradizioni, in particolare buddhiste, come la Vipassana, lo Zen, il Vajrayana o altre. Sono scuole di saggezza che oltre a dare una visione dell’uomo utilizzano pratiche meditative di vario tipo che permettono di entrare in comprensioni profonde ma anche in esperienze concrete. La psicoterapia ne è stata influenzata in particolare a partire dagli anni ‘60, ma anche prima. Nel programma SAT si fa riferimento a più approcci, non ad una sola scuola. Sono tanti i contributi che vengono da più direzioni, non c’è chi è specialista in tutto. Va bene integrare in maniera congruente.
L’adulto integrato
Tornando all’Analisi Transazionale ritengo che anche Berne faccia riferimento ad uno sviluppo e ad una crescita ulteriore. Forse è una condizione che prevede l’uscita dal copione o forse può rientrare in una idea di copione positivo o ancor meglio non ha bisogno di essere incasellata.
Mi riferisco all’Adulto integrato. Si è detto molto poco in proposito e lo stesso Berne ha lasciato un discorso aperto. Secondo alcuni corrisponderebbe al saggio, una sorta di Bodhisattva, tipico della tradizione buddista. Nell’Adulto integrato, com’è noto, convergono tutti e tre gli stati dell’Io. In questo caso, a mio parere, non si tratta di strutture ben definite e rigidamente costruite. C’è maggiore flessibilità e ciascuna di esse si arricchisce di qualità che appartengono a sfere superiori di coscienza. Chi raggiunge questo stato è una persona che si distingue tra gli altri. Berne parla di Ethos, Technos e Pathos, Genitore, Adulto e Bambino che, sviluppandosi, vanno a formare un adulto più evoluto. Tra gli stati integrati dell’Io non c’è ovviamente contaminazione, ma un fluire insieme. Così personalmente lo immagino, non avendo Berne lasciato particolari indicazioni. Però è evidente che il maestro avesse in mente ulteriori sviluppi per l’essere umano.
Passo ora ad una breve descrizione dei tre stati, integrata da mie elaborazioni. Il Genitore etico, Ethos, non ha nulla a che vedere con la morale, i principi o le regole, che vengono da norme, leggi o costumi di specifiche comunità. L’etica riguarda valori più alti e non impone obblighi. E’ frutto di maturazione e consapevolezza, qualità che vengono dalla saggezza dell’uomo che crescendo, abbassa il livello dei desideri ed è quindi meno egoicamente teso a soddisfare i propri bisogni, consapevole che molti di essi sono superflui e frutto di attaccamento. L’Ethos guida verso l’amore altruistico: la compassione. E’ una forma di amore che non ha uno specifico oggetto, si dirige verso l’umanità. L’Ethos raggiunge portata universale e chi lo sperimenta ha coraggio, si offre per il benessere altrui, sviluppa lealtà e autenticità. Il Pathos è del Bambino che ha capacità di sentire con l’altro, di condividere emozioni naturali, profonde, sia di gioia che di dolore. L’adulto che integra il Pathos ha fascino e spontaneità che ricordano le qualità di un bambino naturale ed è anche responsabile verso il resto del mondo. Technos è un insieme di caratteristiche che appartengono all’Adulto. L’evoluzione porta ad una sempre maggiore capacità di valutare in maniera obiettiva i dati, e di calarsi pienamente nel qui e ora, con attenzione al presente effettivo, concreto. Può compiere o organizzare opere in favore di terzi e a vantaggio della collettività, al di là dell’interesse personale. L’Adulto integrato è la persona capace di piena autonomia e quindi di spontaneità, consapevolezza e intimità. Berne si ferma qui. Dice che non sa come spiegare l’Adulto integrato in termini teorici e in termini di stati dell’Io.
Queste integrazioni sono forse delle “influenze”, ma come entrino nelle strutture o in altro non sa. Forse lo potrà comprendere in seguito, dice. Per quello che ne so non ha ripreso il tema in maniera più articolata. Nella mia visione un tale tipo di Adulto è frutto di stati di coscienza che per loro natura difficilmente si strutturano in forme rigide e organizzate. O meglio, certamente questo Adulto conserva la sua logica e le sue capacità di valutazione. Sa selezionare e scegliere, e contemporaneamente sa di esprimersi e manifestarsi attraverso un continuo di esperienza, guidato da consapevolezza, si direbbe in Gestalt, che orienta al contatto con il qui e ora, e a dare risposte creative e congruenti con la realtà effettivamente vissuta. Segue principi e valori rivolti all’autenticità e a cogliere la vera natura delle cose, piuttosto che giudizi e valutazioni che condizionano.
E. Erikson considera l’intimità, per Berne elemento fondante dell’autonomia e quindi dell’Adulto integrato, un fattore caratterizzante dell’età matura. E’ la capacità di stabilire contatti profondi senza divenire fusionali. Ha le qualità dell’amore e permette di intendere profondamente l’unitarietà di coscienza che intercorre nell’incontro con l’altro. Con nomi differenti C. Naranjo la propone come frutto di pratiche meditative rivolte a cogliere la propria natura reale e a favorire la solidarietà umana.
E’ il contrario dell’isolamento nel quale si mette chi caratterialmente e come forma difensiva sceglie la distanza e diventa osservatore dell’esistenza piuttosto che partecipe. Secondo la psicologia degli enneatipi, questo carattere che tende al ritiro, una sorta di avarizia psichica, ha un copione che lo porta ad organizzare l’esistenza in forme egocentriche e ad allontanarsi dall’altro che diventa un mero oggetto di osservazione. Come già accennato, nella persona che cresce e avanza nella maturità la necessità di copione o di organizzazione della personalità in forme molto strutturate diventa sempre meno necessaria. Occorre una maggiore libertà di seguire il proprio potenziale creativo, di inventare nuove maniere di stare al mondo, che rispondano ad esigenze più ampie, a ‘fami’, che ad una età matura, vadano oltre la necessità di struttura e di riconoscimento. Se integrato, l’Adulto aggiunge alle qualità descritte anche quelle recuperate dalla sua natura originaria, che possiamo assimilare a quelle del bambino istintivo e spontaneo e di un genitore capace di amore altruistico, che darebbero alle prime fasi dello sviluppo umano un sapore più naturale e meno traumatico. Berne parla di un bambino eidetico, che guarda un fiore e si incanta. Ma quando ne saprà il nome, il colore, o altre caratteristiche, finirà la percezione spontanea, senza valutazione. I primi elementi che verranno alla mente saranno quelli cognitivi, che descrivono il fiore.
La via della saggezza
L’uomo è limitato e, paradossalmente, il non volerlo accettare gli produce sofferenza: d’altro lato, è proprio la sofferenza che lo spinge alla crescita e, per seguire il nostro discorso, a sviluppare un adulto evoluto. Un adulto che concretamente, con le sue azioni, abbia un’effettiva attenzione per l’altro, magari attraverso i suoi impegni umanitari o come terapeuta, che al centro della propria attività metta un interesse per l’uomo, piuttosto che limitarsi alla tecnica, alla metodologia o alle indagini sulla patologia. Educare a forme più sagge di esistenza produce un effetto positivo per il benessere della collettività.
La terapia può avere una grande funzione sociale quando la cura del malessere psichico si associa alla comprensione dei valori dell’esistenza e le dà significato. Il lavoro nei gruppi SAT, formati anche da centinaia di persone, sta dando risultati importanti, e relativamente in breve tempo. Tramite il mio contributo, nel SAT è presente anche l’Analisi Transazionale. A partire dall’eredità ancora inesplorata dell’idea di Adulto integrato, a me sembra che l’AT abbia in sé l’implicita visione che lo sviluppo personale possa durare per tutta l’esistenza. Nella nostra epoca, nella quale tanti valori sono caduti e quelli nuovi stentano ad emergere, sembra quasi sincronico che maestri di saggezza vengano dall’oriente in occidente. Le contingenze storiche hanno favorito questo movimento, anche se a costo di drammi che hanno coinvolto il Tibet e le sue popolazioni. Maestri tibetani e non solo ci portano le loro millenarie esperienze, patrimonio prezioso per raggiungere la conoscenza di sé oltre i limiti dell’ignoranza sul chi siamo. Ma anche ci insegnano come superare gli attaccamenti passionali ad una realtà effimera, che cambia di continuo, senza certezze, e che tuttavia ci appare assoluta. Di fatto non ci rendiamo conto che ogni cosa, ogni vita, e tutte le esperienze si esauriscono e terminano. Questi stessi maestri hanno speso le loro esistenze per conoscere e insegnare l’amore altruistico, verso gli esseri tutti. La compassione.