Pubblicato in: Esperienze di Trasformazione con l’Enneagramma – Un’analisi dei sottotipi, di Claudio Naranjo – Casa Editrice Astrolabio, Roma 2015
“Dalla decisione esistenziale di essere perfetto all’accettazione di commettere errori: una trasformazione verso la serenità”.
Per comprendere il significato della passione ira, prima di tutto dobbiamo distinguerla dalla rabbia come emozione. Mentre per “rabbia” intendiamo la reazione emotiva di attacco in risposta a un pericolo o a un’invasione, l’ira è invece l’impeto rabbioso e incontrollato che questa personalità sente di fronte al vuoto esistenziale procurato dalla perdita dell’originaria condizione di pienezza. È come se, avendo perso il paradiso terrestre, l’E1 considerasse questa perdita un errore da riparare. Mentre per i caratteri mentali (e ancor più per quelli emotivi) la passione è un tentativo di riconquistare la pienezza esistenziale ponendosi in contatto con la sofferenza e la paura di questa perdita, l’E1 si allontana sia dal dolore sia dalla paura, assumendo una posizione di superiorità che dovrebbe riparare quella perdita, considerata un errore.
La riparazione sarà così un impulso all’azione concreta, perfetta e reale, che eliminerà la sofferenza. L’E1 in genere non ha alle spalle l’esperienza di essere stato un bambino guidato e accudito, ma si è visto obbligato piuttosto a comportarsi in maniera giudiziosa, rinunciando alla propria istintività, emotività ed espressività, qualità tipiche del suo essere bambino. In definitiva, è stato investito di aspettative elevatissime, che non prevedevano la possibilità di commettere errori. La sensibilità del bambino verso la sofferenza dei genitori si è presto trasformata in disponibilità a risolvere il problema per loro. È la soluzione ciò che appassiona l’E1; in questo senso si può capire come l’Ira non sia un aspetto emotivo, ma un’energia ardente che lo spinge sempre avanti, saltando il contatto con i sentimenti legati al contesto e con la relativa elaborazione mentale. L’attitudine dell’E1 a “spingere il fiume” rivela la sua necessità interiore di cercare di modificare il contesto invece di prendere in considerazione la possibilità di adattarvisi; da qui il suo senso di superiorità e di disprezzo verso chi non è nel giusto.
L’impulso rabbioso può manifestarsi con stili diversi a seconda del sottotipo: in quello sociale, come nel conservativo, l’ira sottostà a una formazione reattiva di difesa che la trasforma in imperturbabilità o in benevolenza. Nelle relazioni con gli altri, l’E1 mostra una tendenza automatica a imporre il proprio rigore mentale e comportamentale, pretendendo dagli altri lo stesso perfezionismo (la sua fissazione) che richiede a se stesso; agisce il controllo ed esige disciplina affinchè, a livello comportamentale ed emotivo, vengano rispettati l’ordine e il rigore che secondo lui porteranno all’eliminazione di ogni errore.
Il suo senso di superiorità deriva da una sorta di autocertificazione, nel senso che ha di sé un concetto di persona virtuosa e giusta, che le conferisce il merito di ricoprire un ruolo di autorità e dominio. È un carattere normativo e nevroticamente etico, con la specificità di dettare norme personali che considera codici assoluti. Questo permette all’E1 di trasformare il desiderio in regola di comportamento, e in tal modo si mette al riparo dal sentirsi imperfetto per aver provato impulsi o emozioni che dal suo punto di vista sono difetti.
E1 SOCIALE: INADATTABILITA’/SUPERIORITA’
Il carattere Uno Sociale è molto diverso dagli altri sottotipi dell’E1. È il risultato di una caratteristica indicata da Oscar Ichazo (dal quale l’ho imparata) come inadattabilità. Per molto tempo ho preferito utilizzare semplicemente la parola rigidità nella descrizione di questo carattere, in riferimento a una sorta di mentalità da maestro di scuola, e anche rispetto al “carattere aristocratico” di Wilhelm Reich. Solo che la parola “rigidità” descrive piuttosto uno stile di comportamento o un tratto specifico della personalità, e non propriamente una necessità o una passione. Ho aspettato perciò di riuscire a definire il bisogno nevrotico che rendesse comprensibile il carattere rigido. In questa ricerca mi ha chiarito molto le idee il caso di una donna che, oltre a essere un’intellettuale colta e a far parte del dipartimento di Filosofia di un’università, parlava con un marcato accento del Midwest americano. Era sorprendente che, nonostante si fosse trasferita in California da lungo tempo, continuasse a parlare con questo accento solitamente associato a persone di basso livello di istruzione.
Essendo un carattere Uno Sociale, si potrebbe dire che manifestasse in questo modo la sua inadattabilità; ma come capire questo tratto comportamentale partendo da una motivazione sottostante? E dato che le persone sono solite adattare il proprio modo di parlare all’ambiente, perché le importava così poco farlo? Mi bastò chiedermelo perché mi risultasse evidente che la risposta stava nel suo atteggiamento generalizzato di “sentirsi nel giusto”. Si comportava come se pensare “il mio modo è quello giusto” implicasse che toccava agli altri adattarsi. E questo si notava anche nel fatto che commetteva errori di lingua che non corrispondevano al suo livello culturale, cosa che poteva facilmente essere intesa come risultato dell’atteggiamento di credersi una persona esemplare.
Tuttavia, “sentire di essere nel giusto” non costituisce né una motivazione né una passione. E se vogliamo spiegare il contrasto tra l’Uno Conservativo (che, come vedremo, è il perfezionista propriamente detto, alla luce della cronica consapevolezza delle proprie imperfezioni che lo porta a perfezionarsi) e l’Uno Sociale (che già si sente perfetto e pertanto può commettere gravi errori), dobbiamo risalire al bisogno di superiorità, in virtù del quale i Sociali adottano la posizione dei perfetti e impeccabili. L’Uno Sociale ha una vera passione per ritenere “io ho ragione e tu sei sbagliato”; e questo, a sua volta, implica un certo potere sugli altri, quando può far sentire loro che si sbagliano. E come se dicesse: “Se sei in errore, allora ho più diritto di te a dominare la situazione”. È una grande tecnica quella di dominare gli altri facendo sentire che sono in errore, e può essere intesa come un’alternativa al dominio che l’Uno Sessuale stabilisce attraverso la mera assertività nella presa di possesso e nel sentirsi in diritto di farlo. Ma, dal momento che questi caratteri sentono soprattutto un’ implicita superiorità morale, è utile sottolineare la grande differenza tra moralità e moralismo: ciò che è immorale nell’E1, apparentemente così integro e onorevole, si radica proprio nel fatto che la sua apparente moralità è solo moralismo.
LA TRASFORMAZIONE NELL’E1 SOCIALE
Inizio la mia presentazione sottolineando quanto sia paradossale che l’Uno Sociale si adatti al mondo essendo un inadattato. Per mostrare come si organizza questa forma di carattere, ho scelto alcune esperienze della mia infanzia, con immagini di me bambino molto piccolo. Sono a casa, c’è poca luce, quasi una penombra, e tanto silenzio. I miei genitori, soprattutto mia madre, immersi nelle loro faccende, sono visibilmente preoccupati e non parlano.
Saprò in seguito che la loro vita in quel periodo era particolarmente difficile da gestire. Hanno subito entrambi vari lutti e domina un senso di precarietà. Sono ancora vivi gli echi della guerra e il ricordo dei rifugi nei quali si proteggevano dai bombardamenti. Vivono in una piccola città del nord Italia, ai contini con l’Austria, in un mondo sconosciuto, con popolazione in prevalenza di lingua tedesca. Si sentono estranei in quell’ambiente e in quella cultura così diversa dalla loro, meridionali, che vengono da Napoli. È facile immaginare che il bambino, a fronte di queste difficoltà che si respirano nell’aria, abbia deciso di non creare ulteriori problemi e di starsene un po’ ritirato, limitando le richieste e riducendo al minimo bisogni e desideri. “Non voglio dare fastidio”, sembrava essere la decisione di base, e a partire da qui ha imparato a non chiedere e a non appoggiarsi. Ha sopito la sua naturale vivacità ed è diventato un bambino tranquillo, anche troppo, un “bravo bambino”. Non chiedeva, ma neanche accettava di ricevere, dicendo timidamente no pur se si trattava di un piccolo regalo. Sentiva vergogna quando si preoccupavano o gli davano, secondo lui, troppa attenzione. Era considerato un bambino fragile, deboluccio: “non affaticarti… non correre… sei stanco?”, gli dicevano. Non mi piaceva.
UN BRAVO BAMBINO CHE VUOLE ESSERE ADULTO
Da più grande scoprii di avere un’insufficienza valvolare al cuore e che correvo dei rischi. All’epoca era inoperabile e quindi non c’era nulla da fare. Un po’ compresi la preoccupazione dei miei genitori, ma non volevo trattamenti speciali ed ero molto attento a non dire a nessuno della mia condizione, che peraltro era diventata un segreto di famiglia.
Per fortuna reagii. Con la forza dell’incoscienza e con il desiderio di vivere più pienamente, mi organizzai la vita a partire da valutazioni e decisioni del tipo: “quello che mi date e fate per me mi fa soffrire, sto male, meglio che faccia di testa mia, come piace a me, e se è troppo per voi ce la farò da solo. Voglio sentirmi capace, voglio affaticarmi, voglio correre, voglio rischiare di farmi male, voglio essere alla pari con i miei compagni”. E incominciai a sfidare il mio cuore fragile. Tutto questo iniziò quando avevo circa dieci anni. Tuttavia non smisi di essere un bambino sensibile, molto emotivo, che tratteneva le emozioni reprimendole; non volevo mostrarle, ma dentro mi squassavano il petto. Diventavo facilmente rosso e mi vergognavo anche per cose di poco conto. Piano piano, nel tempo, imparai a controllarmi, diventai più forte, più duro, non volevo che scoprissero quello che effettivamente vivevo. Non volevo essere deboluccio, fragile, sensibile, e quindi nascondevo i miei stati d’animo, le difficoltà, e non chiedevo. Così come mi volevano loro, mi faceva sentire diverso, incapace, limitato. In fondo non avevo fiducia che papà e mamma potessero rispondere alle mie esigenze. Fu importante il confronto con i compagni del quartiere, incontrare le diversità sociali, giocare con i miei amici e poi, crescendo, organizzare con loro attività più strutturate.
Mi impegnavo nelle cose che facevo, anche sfidando il limite e sopportando la fatica fino a ignorarla. “Ancora un po’ di più” era diventato un modo di vivere: sotto sforzo, instancabile. Più tardi, nell’adolescenza, gli schemi di vita della mia famiglia e dell’ ambiente io cui vivevo cominciarono a starmi stretti. Volevo altro. Volevo cose diverse da quelle che il mio mondo offriva e volevo sentirle mie. Pur se impaurito e timido, mi incuriosiva confrontarmi con altre realtà. Nelle discussioni con gli amici, le mie idee spesso divergevano da quelle di tutti gli altri e mi sembrava strano che non le condividessero, ma io continuavo a mantenerle e a difenderle a oltranza, perché questo mi faceva sentire integro.
A scuola non brillavo, in particolare avevo difficoltà con le materie scientifiche, ma comunque andavo avanti. Facevo il minimo indispensabile, con poco interesse. Forse anche lì l’ambiente non rispondeva alle mie aspettative. Pur non essendo formalmente un ribelle, volevo fare di testa mia e comunque tendevo ad andare contro corrente, imponendo i miei modi di vedere. Non era contro gli altri, ma volevo seguire quello che io credevo valesse e fosse importante per me. Questi tratti si svilupparono soprattutto nell’adolescenza, quando incominciai a operare scelte che non solo uscivano dagli schemi familiari ma anche da quelli del gruppo, abbastanza grande, delle persone che frequentavo. Con il tempo mi resi conto che tanti dei miei comportamenti coprivano un profondo senso di svalutazione e di inadeguatezza ed erano diretti a soddisfare un gran desiderio di riconoscimento. Paradossalmente però, mi vergognavo e arrossivo quando lo ricevevo. In verità gli apprezzamenti che mi facevano da ragazzino erano soprattutto sul mio essere un bravo bambino giudizioso, educato, obbediente. Ma io volevo mostrare a me stesso e agli altri di essere capace in quello che mi interessava, per cui sentivo una vocazione.
Il mio inadattamento si presentava come un’attitudine anti introiettiva Non accettavo di essere considerato un bambino. Volevo che mi vedessero come un piccolo adulto che non dava problemi. Me ne stavo più con i grandi, anche se in silenzio, che con i miei fratelli e i loro compagni che giocavano. Era come se dicessi: “Vedete? Loro sono bambini e io invece sono già cresciuto e posso stare con voi e i vostri amici, partecipo ai discorsi dei grandi. Anche se ascolto solamente, io ci sono”. In seguito, con il tempo, il mio inadattamento divenne sempre più una voglia di differenziarmi, di essere particolare. Era anche un modo per disobbedire alla noiosa routine, per scappare fuori di casa e respirare.
ESSERE PIU’ GRANDI DELLA PROPRIA ETA’
Tutte le altre persone intervistate hanno il vissuto di essere stati, da piccoli, più grandi della loro età. Una riferisce che da piccola accudiva non solo la madre ammalata, ma anche altri parenti. E non faceva solo la piccola infermiera: a dieci anni accompagnava il padre, che aveva un ruolo sociale importante, a feste e cerimonie. Come una moglie, sostituendo la madre inferma. Imparò presto a essere un capo tra i compagni e, in questo caso, assumeva un ruolo maschile che conservò anche da adulta. Un’altra fin da piccola andava per ospedali dove erano ricoverate persone di famiglia e lì trascorreva giornate intere a occuparsi di loro. Le prime volte fu terribile, era costretta a farlo, ma con il tempo si abituò e non sentì più la paura e la sofferenza di stare in posti così duri, dimenticandosi presto di essere una bambina. In generale le persone con carattere Uno Sociale con le quali ho parlato hanno storie assimilabili, non tanto per i contenuti, spesso abbastanza diversi, ma per le decisioni esistenziali a cui hanno portato.Uno sottolinea con forza il desiderio di mantenere la propria identità: “Se mi adatto muoio”.
Adattarsi è come soffocare, diventa quasi obbligata l’esplosione, ne va della vita. È importante fare come ci si sente, non volendo subire la manipolazione. La conseguenza è di non sentirsi a casa da nessuna parte, un senso di estraneità. C’è la convinzione radicata di non poter mai far parte di un gruppo, perché può indurre in errore: é meglio rinunciare. Potrebbe essere pericoloso, c’è rischio di contaminazioni. Forte nelle sue fantasie teme di subire ancora quanto ha vissuto forzatamente da bambino, i devi che andavano contro i suoi desideri. Per un altro, che si dedica a esperienze spirituali e frequenta gruppi religiosi, è ricorrente una forma di estraniamento e non appartenenza, non si è sentito interamente parte di nessuno degli ambienti in cui è stato. Nella famiglia di origine era preso da “un movimento di ribellione, di allontanamento e anche di litigio”. Un’altra sente una necessità di distacco da un mondo in cui non vede uno spazio per lei, perché “i valori sono mercantili e legati a giochi di potere”. Cerca onestà, integrità, coerenza e spiritualità e in generale ha aspettative molto alte, aspira a una purezza che non è di questo mondo.
Il vissuto di rifiutare la realtà per come è, in misura più o meno grande, risulta essere un tratto comune e fondante dell’E1 Sociale. Non vuole far parte pienamente. C’è un fondo di sfiducia verso l’altro, che lo trattiene. Ma teme anche di dispiacere, se dice chiaramente no. E di conseguenza, quando lo fa, si esprime con forza e determinazione spesso fuori misura. Diverse persone riportano esperienze di poca partecipazione quando si trovano in gruppo. In una scena rivissuta durante un’esperienza terapeutica condotta con la tecnica della “linea del tempo” proveniente dalla PNL, alcuni riportano un episodio del passato in cui è presente un gruppo di persone che parlano tra loro. Si mantengono a distanza e guardano, vorrebbero incontrarle ma non osano avvicinarsi, temono di dare fastidio con la loro presenza e di non essere graditi. Preferiscono restare fuori: “potrei non essere accolta, mi sento estranea”. Per qualcuno la preoccupazione principale è non mostrarsi, non esprimere le proprie idee e opinioni perché gli altri potrebbero scoprire quanto poco interessante sia quello che dice e pensa. E così preferisce starsene in silenzio.
IL RAPPORTO COI GENITORI
I sentimenti e i conseguenti comportamenti di inadattabilità possiamo considerarli come risultato dell’incontro del bambino con I’ambiente, in particolare con i genitori, e delle proprie specifiche elaborazioni interne. Tutti gli intervistati parlano di un padre dotato di un certo fascino, intelligente e abbastanza ammirato. Per alcuni è un buon parlatore, con spiccato senso dialettico, capace di dimostrare le proprie tesi e di aver ragione. Ha in generale un aspetto severo, un suo sguardo è sufficiente per ottenere obbedienza. Uno descrive il padre “forte, lavoratore, responsabile, gli piaceva scherzare con gli altri, fare amicizia”. Lo viveva come un adulatore e questo non gli piaceva, non sentiva né presenza né cura da parte sua. Era severo nell’educazione dei figli, a volte li picchiava e litigava molto con la moglie: “Per questo lo credevo violento e avevo molta paura di lui”.
La madre degli Uno Sociali è presentata con le immagini più diverse. Al contrario del padre, appare impaurita dalla vita. Il più delle volte è sottomessa al marito e dedita alla famiglia. A volte é controdipendente e alcuni la descrivono come una donna superficiale. Per qualcuno é più affettuosa e protettiva rispetto al padre, e dà al figlio molta libertà, ai limiti dell’incoscienza. In altri casi la madre e fisicamente sofferente e con tendenze isteriche: una fu rifiutata dalla madre fin dalla nascita e per questo la odiò. Un altro presenta la madre come una donna forte, battagliera e grande lavoratrice, molto intelligente e sveglia, che ha un forte senso religioso e come il marito è critica e autoritaria. Ma è anche gentile e generosa, le piace aiutare chi ha bisogno. Tende all’isolamento, mentre il marito é più conviviale. Si coinvolge molto nella vita dei figli, si sente responsabile e colpevole ed esprime il proprio amore preoccupandosi. Testarda e ostinata, mantiene rancore e non perdona facilmente le offese ricevute.
Il genitore dell’’E1 Sociale più evidentemente incorporato e nel quale più ci si identifica è il padre: da qui deriva il maggior sviluppo dell’amore ammirativo. In seconda istanza é presente l’amore empatico, che in generale cresce con l’aumentare dell’età. Il meno sviluppato é l’amore erotico. Per alcuni l’amore ammirativo è diretto anche alla conoscenza e alla spiritualità, non solo verso le persone. In quasi tutti, l’idea iniziale è di aver avuto un’infanzia felice, ma con il tempo questa visione cambia. In sintesi, l’enneatipo Uno Sociale matura la convinzione che quanto offrono i genitori non va bene per lui: non possono soddisfare i suoi bisogni. Pensa che sia meglio organizzarsi il più possibile da solo. Fin da molto piccolo ha pretese di autonomia, obbediente o ribelle che sia. Diventa presto un piccolo adulto, vuole fare le sue cose in maniera diretta, dichiarandolo, o più sottilmente, perseguendo il proprio obiettivo senza fare tanto rumore. Infine tende a imporre un proprio modello e difficilmente si adatta a quanto gli viene offerto dall’esterno.
LA DECISIONE DI ESSERE PERFETTO
L’inadattamento si organizza intorno a decisioni del tipo: “Se le cose vanno in questo modo e a me non piace, farò di testa mia. Anche quando ho bisogno di aiuto, é meglio non appoggiarmi ad altri, certamente non mi daranno quello che mi serve e alla fine comunque dovrò risolvere da solo. Mi devo impegnare e sforzarmi di farcela. Sarò forte, cosi potrò affrontare la vita e superare i miei limiti e le mie incapacità. Non mi fermeranno febbri e malattie, starò sempre in piedi. Non darò fastidio e così mi ameranno. Mi sforzerò di meritare, così mi daranno riconoscimenti e potrò stare con diritto in questo mondo. Qualcuno accudisce e non si fa accudire: “Gestisco tutto io per me, soprattutto le cose difficili. Visto che ho bisogno, ma è difficile che mi soddisfino, me la vedrò da sola. Sarò forte, brava, brillante, perfetta. Sarò come mio padre e il contrario della mamma”.
Per altri il ruolo paterno e materno sono invertiti, ma le decisioni finali sostanzialmente non cambiano. L’inadattamento prevede un continuo sforzo e impegno a fare bene le cose, fino a trasformarsi in una pretesa irrealizzabile: essere perfetto. E allora bisogna fare sempre meglio e non si è mai soddisfatti di ciò che si ottiene. Questo atteggiamento produce uno stato di continua tensione che non permette di rilassarsi e di godere il risultato. Si riparte subito per un’altra avventura o per un altro obbligo da assolvere. Chi segue queste vie è sostenuto da un’idea pazza, irrazionale: “Solo se sono perfetto sarò amato”. La sfida è con se stessi, bisogna riuscire solo con le proprie capacità, cosi gli altri ci ammireranno. La pretesa di essere perfetti ha bisogno di uno strumento esecutivo. Come ottengo la perfezione? Esigendo, esigendo fino alla tortura, con sacrificio e solo con i propri mezzi. L’obiettivo è migliorare, migliorare e ancora migliorare. “Dimostrerò a quei genitori, a volte a entrambi, a volte soprattutto al padre, ma anche alla madre, quanto sono capace”.
È una sorta di riscatto che vuole il bambino, e poi l’adulto: imprigionato nella sua storia, persegue inconsapevolmente un fine di perfezione impossibile. Sviluppa un occhio speciale per scoprire l’errore, la macchia. L’impegno e l’esigenza hanno l’obiettivo di dare una bella immagine di sé. L’E1 Sociale, come gli altri sottotipi, basa i propri sistemi difensivi soprattutto sulla formazione reattiva. Non gli basta rimuovere o reprimere le esperienze, le trasforma. Vuole migliorare…
Ritiene che ciò che pensa o sente non valga abbastanza, o che non sarà accolto, e allora lo cambia in altro. Il sottotipo Sociale, in particolare, esprime poco la rabbia (a meno che non abbia come secondo sottotipo quello Sessuale), e la sostituisce con forme più socialmente accettabili. Atteggiamenti ed espressioni sono improntati a serietà e compostezza. Mostra una freddezza controllata, un sorriso sottile e una certa gentilezza, fino ad arrivare a una superiorità aristocratica che può sfociare in indignazione. Tende a mostrare pacatezza e controllo. Nelle attività che procurano maggore tensione, la rabbia diventa un’esigenza permeante che porta al desiderio ossessivo di fare meglio e di correggere, soprattutto l’altro ma anche se stesso. La rabbia viene nascosta, va sullo sfondo e si trasforma in spinta migliorativa. Diventa pretesa e controllo verso se stesso e gli altri. Così lo scopo si fa più nobile: fare meglio, essere migliore. Per qualcuno il risultato è disastroso. Non potendo avere figli, una persona ne ottiene uno grazie all’inseminazione artificiale. Gli fa da madre e da padre allo stesso tempo, perché non riconosce al padre effettivo sufficiente capacità. Si impegna molto, vuole offrire al figlio il massimo possibile. “L’ho allevato come sono stata allevata io”; il padre la voleva perfetta, quindi lei vuole che suo figlio sia perfetto. Non si piange, non si ride, non si sente paura, e il risultato è che il figlio si produce piccoli tagli e soffre, non tollerando tanta presenza e tanta perfezione.
Il tipo Sociale è il più intellettuale tra i tre sottotipi E1, ed è spesso un abile ragionatore. Claudio Naranjo afferma: “Aristocratico, elegante, composto, nasconde la rabbia con l’impertubabilità. Ma sotto c’è il fuoco”. Molti sono dediti al volontariato e all’aiuto. Qualcuno si dedica alla difesa dei lavoratori, anche se con ruolo amministrativo, lavorando in un sindacato che considera moderato. Tutti vogliono essere riconosciuti per il proprio valore, che si perde quando arriva una critica o si rendono conto di aver sbagliato. C’è una tendenza a ritenere che la vera norma sia quella in cui si crede.
LA TRASFORMAZIONE: ACCETTARE DI COMMETTERE ERRORI
Le persone intervistate hanno tutte vissuto l’esperienza SAT. Per uno il cambiamento importante è stato quello di raggiungere negli ultimi anni una certa serenità, accettando di poter commettere errori; in passato era impensabile. Anche nel gioco si dà più spazio e se lo permette più spesso, senza timore di “uscire dai canoni”. Non sente, come prima, paure o senso di pericolo se gli altri vedono le cose diversamente da lui. Incomincia ad affidarsi di più, anche se non conosce perfettamente tutto quello che sa la persona cui si sta affidando. Oggi si rende conto che se entra in guerra deve aspettarsi che arrivino le bombe. Usa ancora un linguaggio forte e deciso e ne è consapevole. Si aspetta di sviluppare maggiormente l’amore erotico: ha la sensazione che non sia così pericoloso.
Un’altra persona ha vissuto un forte cambiamento dopo il matrimonio, contratto per amore nonostante avesse contro la famiglia. Proprio a partire da lì, ha incominciato a vivere l’emotività, le emozioni che aveva sempre represso. Un’altra esperienza forte è stata la nascita di un figlio in età già matura. Non poteva averne e quando è arrivato, è diventata “mamma al cento per cento”. Quando si è resa conto di quanto il carattere interferisse nella relazione con il figlio, si è messa in discussione, avviando una psicoterapia e frequentando i programmi SAT, lavorando sull’affidarsi e sul confidare. Ha capito che non serve controllare ogni cosa, cominciando a dare fiducia anche a chi non conosceva. E che non importava che le persone fossero pù o meno competenti per avere relazioni con loro. Si é resa conto che non era necessario essere perfetta per volersi bene, e neanche il marito e il figlio dovevano esserlo per volerne a loro. Oggi ha ancora degli obiettivi: vuole sviluppare la gratitudine, accettare di più gli altri e prendersi tutti i tipi di piacere, non solo quelli che si merita. Vuole imparare a tenere le persone più vicine e a fare la mamma, vivendo la vecchiaia senza cercare sempre un senso alle cose. Lasciare che vadano un po’ da sé, prendendole per come sono, e smettere di pensare “che cosa dovrei fare?”, cercando di programmare e risolvere tutto. Recentemente ha provato una forte gratitudine per una persona che I’aveva aiutata in un momento difficile: un sentimento al quale non aveva mai dato spazio, perché era come ammettere di avere bisogno dell’altro, di non farcela da sola. Ha provato gioia e liberazione, ha finalmente potuto riconoscere quanto assurda fosse la pretesa di non appoggiarsi mai. E infine ha potuto dire grazie.
Un’altra E1 Sociale nei suoi progetti di cambiamento vuole soprattutto amore di coppia e anche lei vuole sviluppare il piacere erotico sempre trascurato, del quale oggi sente la mancanza. Nel SAT ha scoperto la meditazione e in essa trova energia, unita a un senso di gratitudine e compassione. Intuisce anche che il senso della vita è qualcosa di sottile, è vibrazione ed è in queste esperienze che oggi si fa coinvolgere. La pratica spirituale rappresenta l’unico antidoto a quella che chiama “la fatica dell’esistere”, e grazie a tale pratica sta apprendendo anche a fidarsi. Aspira ad essere una madre serena e a realizzarsi in un lavoro in cui crede, aiutando gli altri. Un altro aveva deciso molto presto che per salvarsi doveva sapere, conoscere. E lo ha messo in atto fino ad arrivare all’arroganza: ‘io so’. Ha fatto molti sforzi per guadagnarsi da vivere, doveva dimostrare che era responsabile, visto che glielo chiedevano sin da quando era bambino. Ma, in seguito, ha esagerato, sforzandosi troppo, senza sosta. È stata una conquista accettare che le cose sono come sono e che va bene lasciarsi andare. Oggi dà più spazio al desiderio e sceglie sempre più spesso di fare quello che vuole. Ha scoperto l’amore erotico, sente piacere a contatto con le cose naturali e semplici. La sua aspirazione è sostituire il dovere con il piacere. Ammira la conoscenza e non gli importa più tanto insegnare agli altri per ottenere il riconoscimento. Vuole capire, guarda verso il divino, verso qualcosa di superiore e comprende che le cose sono perfette così come sono, non è necessario cambiarle.
Un cambiamento significativo di un altro Uno Sociale è stato riconoscere che il rifiuto per gli altri ha a che fare con il rifiuto di sé. Inoltre, si è reso conto di aver cercato nella relazione omosessuale l’affetto e la cura del padre che non ha mai avuto nel modo in cui ne aveva bisogno. Con il tempo si è reso che conto di avere sempre represso il desiderio eterosessuale nella sua ricerca dell’amore del padre. Infine, si è lasciato andare e ha sperimentato una grande attrazione sessuale per una donna. Per un’altra E1 è diminuita l’attitudine a educare e a convincere gli altri delle proprie ragioni. Molto centrata sulle proprie convinzioni, solo da poco e in età matura sta imparando ad essere più tollerante e ad accettare che le persone potrebbero avere altre caratteristiche, diverse da quelle che lei vuole ostinatamente vedere. Un’altra infine vuole essere più spontanea, farsi conoscere espriemendosi con maggiore libertà, giocare. Incomincia a parlare di sé e le piacerebbe essere più libera di mostrarsi nei gruppi. Impegnata nella lotta contro l’ingiustizia, sente il bisogno di dare più spazio al bambino erotico, aperto, allegro, che non si preoccupa. Vuole valorizzare le emozioni, il sentire, cerca la spiritualità.
IL TEATRO, IL SAT, L’ESPERIENZA SPIRITUALE
Quanto a me, il mio processo di cambiamento è avvenuto gradualmente, nelle circostanze più varie. A partire dalla sfida dell‘adolescente che non vuole più essere il bravo bambino, fragile e ritirato, mi sono misurato con i compagni e ho cercato un mio spazio. E poi il teatro, l’espressione creativa, l’improvvisazione. Posso sperimentarmi in ruoli differenti e lavoro in gruppo. Il teatro è un antidoto alla vergogna, ma soprattutto è qualcosa che ho scelto e che mi piace al di là di ciò che si aspettano i miei genitori, e infine è diventata una professione. Sono stati molto importanti i compagni di quartiere e il centro sociale, luogo nel quale mi sono aperto alle relazioni e ho appreso la gestione di attività con modello assembleare e collaborativo. Lì sentivo un senso di appartenenza. E poi, più tardi, l’incontro con la psicoterapia della Gestalt, che mi ha aperto le porte alla trasparenza e alla spontaneità, ma anche all’espressione emotiva, sempre tanto trattenuta. È stato fondamentale diventare un analista transazionale e completare così la mia carriera. Questa scuola ha contribuito a darmi chiarezza e struttura anche nel lavoro, ingredienti che ho integrato dando più pienezza all’espenenza gestaltica.
E ancora l’incontro con Claudio Naranjo, che a partire dal 1982 è diventato una presenza costante nella mia vita. Con lui, grazie ai programmi SAT e ai nostri incontri personali, ho vissuto profondi cambiamenti e ho appreso a integrare la quotidianità con i livelli sottili della coscienza. Con lui ho appreso a sentire la gratitudine, ho imparato a guardare ai fenomeni della vita da tanti angoli diversi e ho alimentato la fiducia nella crescita e nel cambiamento. Mi ha sempre commosso la sua fede nella trasformazione. Anch’io in verità ne avevo e con lui si è rinforzata. Il mio sviluppo personale va avanti lentamente e lo percepisco come un processo armonico nel quale tanti aspetti diversi tendono a formare un insieme unitario. Credo che tutto quello che ho esposto fin qui costituisca un insieme di fattori importanti che caratterizzano il percorso di cambiamento dell’Uno Sociale, il quale, a fronte della propria freddezza e rigidità ha bisogno di accoglienza morbida e di sentirsi apprezzato per le proprie capacità perché non se le riconosce. Ha bisogno di ridimensionare le critiche e iI giudizio negativo che mette su se stesso e per riflesso sul mondo.
E poi è stata centrale l’esperienza spirituale. Per molto tempo poco vissuta, è diventata via via sempre più importante. L’ho trovata fuori dalla mia tradizione cattolica, nel buddhismo tibetano, attraverso Namkaj Norbu Rimpoche, che considero il mio primo e principale Maestro, e poi nel modello e nella persona di Claudio Naranjo. Dagli insegnamenti spirituali ho guadagnato più leggerezza nell’affrontare la vita e più amore altruistico, due fattori che considero molto importanti per il cambiamento dell’E1 Sociale. La spiritualità mi ha aiutato a lasciare le velleità perfezionistiche e gli inutili idealismi. L’amore altruistico mi spinge a essere meno esigente e più benevolo verso gli altri. Rispetto ad altri cambiamenti, per quanto riguarda i miei genitori ho ammirato mio padre e poi l’ho contestato. Ho imparato ad amarlo quando già era vecchio, con la sua debolezza e la sua fragilità. Non era più l’uomo che avevo idealizzato nei miei primi anni. Era umano. Poterlo accettare così diverso dall’immagine infantile che avevo di lui, mi ha permesso anche una maggiore accettazione delle mie fragilità e dei miei limiti e di poterli mostrare. È arrivato il momento in cui ho potuto dire “non lo so” e dichiarare la mia ignoranza senza sentirmi inadeguato.
Ho incominciato tardi ad apprezzare mia madre. Avevo sempre rifiutato la sua paura ed è stato molto bello riconoscerla per le sue forme di coraggio, che non vedevo, per la generosità con cui ha sempre sostenuto la famiglia e la sua capacità di amare. E poi è venuta la mia famiglia, i miei figli. Con la loro presenza ho scoperto la tenerezza, la capacità di accudire e il gioco. Con loro ho giocato. Sono diventati un punto di riferimento importanti per me, come mai avrei pensato. Li ho avuti tardi e non mi sentivo preparato per essere padre. E, invece mi occupavo di loro e mi piaceva, era una grande trasformazione. Me li portavo dietro anche in situazioni di lavoro. Fin da piccolissimi venivano con me e con la madre ai SAT in Spagna e tutti insieme, mi dicevano, eravamo un simbolo per i partecipanti.
Più tardi, e grazie al mio essere terapeuta, ho imparato a rispettare gli altri: non il rispetto formale che sempre avevo avuto, ma il rispetto per le persone, al di là di quelli che io considero i loro limiti, al di là dei rifiuti che ricevo o del non trovarli simpatici. Un inizio di amore altruistico. Oggi anche quando esprimo il mio disappunto o la mia ira, lo faccio per il comportamento, non svaluto né offendo la persona, anche quando confronto. È stata una grande scuola il lavoro con i pazienti e con gli allievi, e quello che ho appreso a fare con loro, l’ho riportato nella vita, nel quotidiano. In terapia prediligo un tipo di lavoro che va al profondo e, allo stesso tempo, ho imparato a dare direttamente, nell’immediato, più permessi e più libertà, perché li vivano ora. Sempre più spesso dico: “va bene così”. Rido dell’idea di poter – dover fare di più e meglio. Va bene così. Non cerco più così tanto la perfezione. In terapia mi piace scherzare e prendere bonariamente in giro. Uso spesso l’ironia, la metafora, il paradosso e mi diverto. Soprattutto quando faccio il teatro trasformatore, altro regalo di Naranjo, che mi offrì l’idea e mi stimolò a realizzarla. È un lavoro terapeutico nel quale ho sviluppato creatività e molta intuizione. Sono venute fuori le parti più nascoste e più sopite di me. Mi lascio guidare da sensazioni, stati emotivi e da un grande desiderio di vedere le persone cambiare, e questo succede, a volte, in maniera totalmente imprevedibile e in poco tempo. Stimolo la loro vitalità e mi piace ciò che faccio; mi meraviglio io stesso di quello che viene fuori. Finalmente, mi riconosco. A volte mi trasformo in un pagliaccio, in un tontolone, in un seduttore e in altri personaggi insieme agli attori. Vivo tante sensazioni e mi sento libero di esprimermi, senza pudori né vergogna e il permesso che do a me lo trasmetto anche a loro, ai miei attori. Ovvio, mi aiuta il trucco del fare teatro.
E poi c’è stata la vita e le batoste, spesso imprevedibili, che essa dà. Come mai prima, mi sento una persona che vive alla giornata. Non è letterale quello che dico e, tuttavia, ha un senso. Vivere alla giornata consiste nel permettere che le cose succedano, senza un continuo controllo. Che le prospettive e i progetti abbiano il tempo di organizzarsi, anche da soli e acquisiscano una forma che a poco a poco si definirà. Questo per me significa aprirsi e affidarsi di più all’imprevisto. La formula che da alcuni anni che utilizzo con me stesso nei momenti di particolare stress è: “Fai venire quel che vuol venire”. È diventato un grande antitodo allo sforzo e alla pretesa di voler perfezionare me stesso e il mondo. Il più delle volte mi viene da sorridere e sento pace e nei momenti di maggiore abbandono posso ridere e giocare per le cose strane che io stesso dico e faccio. Non mi importa se a volte posso apparire superficiale o ridicolo: costa essere sempre serio, capace e intelligente.
Ora è un vero godimento quando perdo la faccia e scopro che nessuno mi critica, anzi piaccio di più e risulto anche più simpatico. Sempre più spesso viene fuori il napoletano che si nasconde dietro il travestimento da inglese, metafora con la quale molti anni fa mi presentai in un seminario condotto da Naranjo, e mi piace usare il linguaggio colorito della mia città. Da qualche tempo il mio umore è più mutevole e, rapidamente, passo dalla serietà all’allegria o a improvvise sfuriate di rabbia che vengono presto riassorbite. È molto diminuito il controllo e mi sento in un momento di cambiamento. Ancora cambiare? Che cosa? Non lo so. Magari poco e forse in modo apparentemente insignificante. Ma per me ha a che fare con il sentirmi vivo. In generale sono più in pace con la vita e con una più profonda capacità di comprensione e di rispetto per l’altro. Mi piace cercare le motivazioni di quelli che mi feriscono e fanno male. Non penso a cattiveria, voglio sapere le loro ragioni. Non mi piace rompere i rapporti. La conquista più grande è che incomincio a raccogliere i frutti della mia pratica meditativa e questo passa anche per una maggiore accettazione di non farla bene. Se un tempo pensavo che dovevo essere perfetto per essere riconosciuto e far parte di questo mondo, oggi posso dire: “Che regalo non esserlo, così posso crescere e godermi di più la vita”. Negli ultimi anni il mio pensiero è diventato più volatile, a volte perdo il filo di quello che dico o dimentico e un po’ mi sento perso e poi…e poi mi dico va bene, non importa, mi rilasso e magari ci rido su. Se dovessi dire che cosa ancora c’è da fare per la mia trasformazione l’elenco sarebbe molto lungo. Ma c’è qualcosa che mi ha colpito in particolare. Recentemente, un terapeuta che stimo molto, mi ha detto: “Tu devi farti un po’ proteggere, appoggiati un po’”.
UN ESEMPIO CONCRETO: L’ESPERIENZA DELLA MALATTIA
A metà del 2007, dopo un periodo duro a causa di una separazione improvvisa e imprevista, mentre stavo vivendo quella che mi sembrava una rinascita e stavo riorganizzando anche affettivamente la mia vita con una nuova compagna, di nuovo ho vissuto un evento traumatico: scoprii che avevo bisogno di un intervento al cuore per sostituire la valvola aortica, innestata nel lontano 1977, perché usurata. Era urgente. Rischiavo la vita. Mi dissero chiaramente che il rischio era alto data l’età e trattandosi di organo già operato.
Mi piacque il chirurgo che mi avevano consigliato e mi affidai. Oggi, ho per lui una grande gratitudine. Affrontai il tempo che passò tra la diagnosi e l’intervento continuando ogni mia attività. Al fondo, avevo fiducia e quasi non lo credevo, ma mi sentivo sereno, anche se a tratti mi prendeva la paura e pensavo alla possibile morte. Avevo impegni di lavoro e non volli rinunciare. Preparai tutto quanto serviva e partii per ritornare giusto qualche giorno prima dell’operazione. Parlai con amici ma anche con estranei dell’esperienza che avrei vissuto di lì a poco. Mentre lo facevo mi colpiva come ne parlassi senza reticenze, senza per questo sentirmi un invalido, come avevo fatto anni addietro quando mi vergognavo di far sapere del mio difetto congenito: un handicap da tenere segreto. Feci l’operazione nei primi giorni di giugno e soffrii, naturalmente. Ebbi persone care vicine e mi lasciai accudire, persino facendo i capricci. La ripresa post-operatoria fu molto rapida e non ebbi alcuna complicanza, al di là delle aspettative. I medici erano molto soddisfatti e attribuisco anche ad alcune pratiche meditative ed a una mia diversa energia vitale, l’esito così positivo. Che differenza dalla precedente esperienza, nella quale, pur essendo più giovane, avevo rischiato davvero la vita con una polmonite virale presa in sala operatoria, dolori lancinanti al petto per mesi e un profondo stato depressivo.
Dopo pochi giorni ero in piedi e già pensavo al viaggio ormai prossimo per partecipare ad un programma SAT. “Troppo presto”, mi dicevano i medici, ma in questo vinse il mio carattere e dopo un mese ero a Siviglia, ben coperto nonostante il caldo torrido per non correre il rischio di raffreddarmi con le correnti d’aria. Mentre scrivo mi viene da sorridere. Questi rischi hanno a che fare con l’incoscienza? La pazzia? Dovevo proprio andarci a Siviglia? Certamente ho agito dietro l’impulso del mio carattere, ma questo lavoro mi dà senso, entusiasmo e non voglio rinunciarvi. Tuttavia accanto alle forme caratteriali, in questa vicenda ci sono aspetti nuovi e li considero parte di un profondo cambiamento. Tutta l’esperienza è stata permeata da una sottile accettazione e serenità, prima sconosciute di fronte ad un evento così importante. Nel mio ritorno così rapido al lavoro, lì a Siviglia, ho portato con me i limiti fisici e psicologici della convalescenza, in un ambiente in cui avevo un ruolo di rilievo e mi occupavo del malessere altrui. Non mi sono nascosto, mi sono mostrato fragile per come ero in quel momento, e ho fatto alcuni lavori terapeutici particolarmente profondi. Nei mesi successivi, ho conservato l’atteggiamento rilassato e si è sviluppata ulteriormente la mia voglia di ridere e il desiderio di leggerezza, che ho portato anche in famiglia. I tratti dominanti del carattere non sono scomparsi, sono sempre un iroso-inadattato ma, oggi, posso passare molto più in fretta da uno stato di esigenza e di impulso riformatore a una condizione di accettazione e tranquillità. E questo per me fa una grande differenza.