Vuoto e creatività nella Terapia della Gestalt

Pubblicato in: Caleidoscopio n. 2, 1990

 

“Dall’angoscia del vuoto nevrotico, al vuoto pieno come esperienza di “essere” al di là di ogni definizione.”

 

Una terapia che proceda oltre il mero controllo dei sintomi non potrà fare a meno che occuparsi dei temi esistenziali.  Ritengo che nel nucleo profondo di ogni persona procedendo strato dopo strato fino al centro del malessere, ogni individuo è accomunato da una simile paura: il rischio di perdersi nel “non esistere”. La psicoterapia della Gestalt ha la peculiarità di offrire oltre che un metodo di cura anche un’indicazione per un modo di “essere”.

Come tale, dà un valido contributo per l’approfondimento di quegli aspetti che richiedono un impegno oltre “la cura” verso la conoscenza dell’essere umano, sulla domanda “chi sono” alla quale generalmente la psicologia non risponde, poiché, storicamente, si pone in maniera “laica” di fronte alle problematiche esistenziali e si occupa, piuttosto, della patologia proveniente dagli “incidenti” nei quali incorre un individuo nel corso del suo sviluppo.

Il discorso diventa più evidente quando il terapeuta si confronta con pazienti poco “organizzati”, i quali molto più facilmente che altri precipitano nel panico proveniente da mancanza di riferimenti. Spesso il loro vissuto è di perdersi in un “buco nero”, nel “vuoto”. Sperimentano una mancanza d’essere che proviene dalla sensazione di frantumarsi.

Il vissuto di perdita del corpo è simbolico di una perdita più profonda: quella dell’esistere. Esperienze simili vengono spesso riferite anche da pazienti organizzati, quando rivivono scene primarie o quando la terapia procede verso livelli più profondi. Risperimentare la forza del legame che da bambini li ha uniti alla madre e al padre, fa rivivere i sentimenti connessi al rischio “catastrofico” di perdere una protezione vitale se si opponessero ai loro no.

Il conflitto tra il bisogno del bambino e l’opposizione dei genitori è risolto a favore della sopravvivenza. Non è possibile rinunciare all’amore di mamma e papà. Il messaggio implicito nelle loro reazioni di divieto è del tipo: “Se fai come ti dico, ti amerò e ti proteggerò”; e il bambino sa che senza di loro non può vivere.

Il rischio è il vuoto, il nulla. Il “contatto” con l’esistenza avviene attraverso quelli che si prendono cura di lui. Se quegli “oggetti” esistono “lui” esiste e non importa se li vive con odio o con amore. Sia l’odio che l’amore sono la prova che “loro” esistono e, quindi, che “lui” esiste. Gradualmente, perde spontaneità e naturalezza e costruisce un’immagine di sé che presume sarà più accettabile.

S’impone una modalità di essere e si adatta ad un ruolo che, col tempo, diventerà il suo abito e la sua “nevrosi”. Quando il senso di vuoto e di nullità diventano particolarmente intollerabili crea un’immagine di sé, un ideale grandioso, fantastica di essere estremamente dotato, si dà un “miraggio” che compensa la sua disperazione e lo protegge dal precipitare nell’angoscia profonda del sentirsi “impotente”.

Ha strutturato il suo modo di essere al mondo, definendo il “gioco” che giocherà e rendendo prevedibili le sue esperienze future. D’altra parte, non può rinunciare al mito della propria libertà. Il senso di “autoregolazione” è presente in ogni parte di sé, in ogni cellula. È programmato per vivere l’esperienza nel suo evolversi, al di là dei ruoli, nella processualità. Il suo organismo procederebbe naturalmente verso il completamento di “organizzazioni successive”, nel ciclo perenne di trasformazione, di nascita e morte. Seguiterà a dibattersi tra le polarità estreme di un rassicurante bisogno di “struttura” e di un creativo ma “rischioso” bisogno di “libertà”.

È nella natura dell’uomo di porsi limiti e confini. Gli “incidenti” delle fasi evolutive rappresentano nel microcosmo principi più generali che vanno al di là della contingente conflittualità individuo – ambiente. Abbiamo un bisogno primordiale di definirci e, a questo scopo, costruiamo un insieme di regole, principi, comportamenti, che i nostri pensieri, le nostre emozioni, il nostro corpo e chiamiamo tutto ciò “Io”. L’Io ci dà sicurezza, ha confini definiti e permette di conoscere lo “spazio” entro il quale ci muoviamo.

Evitiamo l’angoscia profonda di creare la nostra esperienza momento per momento, aprendoci alla possibilità, all’ignoto, piuttosto che al conosciuto e stabilito. D’altra parte, sperimentiamo una primordiale spinta alla crescita e all’autorealizzazione che impone l’uscire da confine e strutture e all’estremo del continuo comporta la distruzione dell’Ego, contemporaneamente meta desiderata e temuta, perché al di là dell’Ego subentra il terrore del non essere.

Quando entro nel “buco nero” alla ricerca del “chi sono”, il rischio è uno stato di coscienza sconosciuto e l’Ego vacilla, non può “tollerare” la sua “distruzione”. È difficile “convincerlo” che la nuova esperienza può essere più piena e arricchente della precedente. Nel microcosmo della psicoterapia chiamiamo tutto ciò “difese”. La difesa si articola su due livelli, entrambi rivolti ad impedire il rischio del “diverso” che è alla base del cambiamento. Ad un livello più immediato, legato con l’esperienza contingente, la “difesa” impedisce il passaggio da un vissuto “nevrotico” ad uno “consapevole”.

A livello più profondo, quello che riguarda “l’esistere”, il cambiamento ha a che fare con la perdita dell’Ego, cioè dell’autoimmagine con la quale viene identificata l’idea stessa di esistenza, così come definita in termini percepibili dal sistema dei sensi. Questi concetti mi sembrano risultare molto chiari nell’esperienza di un paziente che, lucidamente, riferisce il suo vissuto di perdita dei riferimenti e di “recupero” del controllo, nel corso di un esperimento di profondo contatto con sé. Ad un certo punto dell’esperienza diceva: “Ho bisogno di riposo al mio viaggio.

E però voglio continuare, sento che sto resistendo al punto, al clou. Lì c’è il vuoto, il buco nero. Il superamento di ogni confine? Percepisco che è così e non entro dentro fino in fondo. Mi manca qualcosa, mi serve un’intuizione o forse permettermi veramente di morire. Per un attimo lo penso. Ecco cos’è perdere l’attaccamento al proprio corpo: permettermi di morire. Qui mi sono fermato. Qui mi sono difeso. Una voce interna mi ha detto “aspetta”, c’è il tuo corpo e tienitelo ancora, hai ancora cose da fare con lui…” in questa esperienza sono presenti insieme la consapevolezza del limite, l’accettazione della sua necessarietà e la tensione verso il suo superamento che contiene in sé una perdita e un’eccitazione-paura per il dopo.

È più della perdita del proprio corpo nel morire. È coinvolto l’annullamento del proprio Ego, cioè di quella “autoimmagine” alla quale è legata l’idea stessa “esistenza”. Un modo di non sperimentare la “possibilità” e il “rischio” di uscire dai confini, è quello tipico di persone che si imbattono in una sensazione di “vuoto” ogni qual volta stanno per intraprendere qualcosa di nuovo.

La paziente R., che vive un’esperienza di questo tipo, fonda inconsapevolmente la sua difesa sull’idea che è “positivo” vivere nel “qui ed ora” e prendere le cose “come vengono” ma, paradossalmente, il suo sperimentare il presente è un modo per fuggire e, quindi, per non uscire dai propri confini, perché non approfondendo le esperienze, ne evita la prospettiva e il risultato.

Solo il raggiungimento dell’obiettivo comporta contatto pieno, che permette l’assimilazione e poi il superamento di una specifica esperienza e l’apertura verso quella successiva. L’esperienza, nella relatività in cui viviamo, si estende nel tempo. L’essere umano è condizionato dall’idea di tempo e, contemporaneamente, è vivificato dalla prospettiva del tempo. Il principio della polarità ha sempre due valenze: possiamo farci condizionare o usare per la crescita la stessa esperienza.

Nel caso della paziente citata, il futuro veniva vissuto come “vuoto”, come inesistente, non poteva immaginare la sua vita di lì a qualche anno. La mancanza di prospettiva, in termini psicologici, le deriva dalle “interruzioni” vissute nel corso delle tappe evolutive e oggi caratterizza il suo “ copione”. Genitori vissuti come figure “inconsistenti” non le hanno fornito chiari punti di riferimento e quindi strutture con le quali potersi sostenere. Messaggi ambigui e vaghi hanno prodotto in lei una visione confusa del mondo.

Il grande desiderio di esplorazione, avvenuta senza un appoggio adeguato, le ha prodotto una sorta di adattamento con il quale si illude di poter esaudire entrambe le polarità del conflitto. Nella sua vita attuale, continua a “muoversi” da una parte all’altra, “sfiorando” numerose esperienze in una sorta di viaggio perpetuo, che le dà l’illusione di soddisfare la propria sete di conoscere.

D’altro canto, non si libera del rapporto simbiotico, il suo sguardo è sempre rivolto a dove può essere la madre, alla ricerca di quella protezione mai sufficientemente vissuta. Il risultato è che non si coinvolge mai in nessuna esperienza. Il terrore del distacco è troppo forte e, mantenere la simbiosi, la protegge dal cadere nel “vuoto”.

Il suo “viaggiare” è un’illusione di cambiamento, di fatto sta evitando il rischio di “mettere radici” e di stabilire contatti più profondi. Sull’altro versante, quello esistenziale, cioè sulla domanda “chi sono”, è, drammaticamente, in contatto con quanto nell’intimo coinvolge ogni uomo. La mancanza di riferimenti in questa direzione provoca quella lacerante domanda alla quale non c’è risposta. Alla fine del “chiedersi” si trova una “non risposta”, un “buco nero”, che è l’aspetto più profondamente esistenziale del vuoto provocato nel contingente da una separazione traumatica. E nessuno si rassegna a “viaggiare” verso il diventare “nulla”.

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